Cine-kamikaze
Anche se il sottotitolo scelto dalla distribuzione italiana (Poco leoni, molto…) può far pensare di trovarsi di fronte ad un film stupido, il film dell’inglese Christopher Morris è invece un’intelligente, anche se non perfetta, ed efficace commedia al vetriolo, meritevole di non fare sconti e di giocare in un campo difficile in cui pochi hanno il coraggio di mettere piede; soprattutto se si considera che siamo in Inghilterra, dove sono ancora caldi il ricordo degli attentati del 2005 e la paura da questi causata.
Il film racconta di cinque estremisti islamici dei sobborghi di Londra che hanno il sogno di partecipare alla guerra santa e di lasciare un loro contributo compiendo un attentato suicida; del gruppo, quattro sono originari del Pakistan o di altri paesi musulmani, mentre uno, il più esaltato e squilibrato, è evidentemente di origine inglese.
Morris vuole ironizzare sul fondamentalismo islamico, e sul terrorismo ad esso collegato, usando le armi dell’umorismo nero e di una comicità efficace ma anche spiazzante: il regista sembra voler dire che alla base dell’estremismo islamico e della jihad ci sia, oltre alla più ovvia follia, anche una buona dose di stupidità, una sostanziale inadeguatezza al vivere e l’essere un po’ sfigati. Per evidenziare questo assunto, accelera sul pedale della comicità, rappresentando i protagonisti quasi come macchiette, in un modo però talmente accentuato da dare comunque una connotazione efficacemente ironica ai caratteri: il tutto assume un senso beffardamente tragico nell’ultima parte, dove i personaggi fanno i conti con la loro incapacità e con il progetto troppo grande che hanno intrapreso, in un cambio di tono che lascia immediatamente interdetti, ma che era necessario per risolvere il film.
Nella prima parte in più di un momento si respira l’aria del cinema dei fratelli Coen, per esempio nella rappresentazione della stupidità che sta alla base della cattive azioni, come in Burn after reading, o nella figura di Barry che ricorda il fanatico e schizzato reduce dal Vietnam interpretato da John Goodman ne Il grande Lebowski.
Il film cammina su un pericoloso filo, correndo il rischio di cadere nel politicamente scorretto gratuito e fine a se stesso e nell’inopportuno: alla fine il pericolo si può dire sventato, e il tono del film, pur non facendo certamente sconti, riesce ad evitare le sirene dell’eccesso e della provocazione gratuita.
Il difetto è semmai un altro, più di costruzione che stilistico: una non sempre adeguata analisi psicologica e una non approfondita costruzione di alcuni caratteri rende infatti, per alcuni personaggi, un po’ farraginoso e non del tutto risolto il cambio di tono finale.