Sky Classics, martedì 22 novembre, ore 22.55
Showtime!
Donnaiolo, perfezionista, gran bevitore e fumatore, Joe Gideon è l’autoritratto di Bob Fosse, in un film-testamento tanto autentico nelle intenzioni quanto barocco ed elaborato nella realizzazione.
All that jazz è chiaramente influenzato, nello spunto e nella struttura narrativa, frammentata e non lineare, dall’inarrivabile 8½ felliniano, ma qui ciò che sembra preoccupare il regista non è una crisi creativa, bensì la salute fisica e mentale. Fosse, infatti, aveva avuto per davvero problemi al cuore, simili a quelli di cui soffre Gideon nel film, dopo una vita di eccessi di ogni tipo. Una pulsione di morte si nasconde dietro l’apparente vitalismo della messa in scena, di scenografico splendore e di coreografica spettacolarità. Come in Fellini, ma le somiglianze finiscono qua, perché mentre Fellini conserva sempre uno sguardo “esterno” al sistema, deliziosamente provinciale, in Fosse Hollywood e Broadway si identificano con la vita e i confini si dissolvono.
La vita è uno spettacolo, per Joe Gideon, e così sembra essere per Fosse, in questo non lontano da un tema rappresentato con frequenza nei musical dei tempi d’oro. In un periodo in cui il musical sembra rivolgersi soprattutto al pubblico giovane (La febbre del sabato sera, Grease), però, Fosse va controcorrente e sceglie di raccontare la vita di un uomo di mezza età, con i suoi problemi sentimentali e familiari. I numeri musicali di All that jazz, tuttavia, sono godibilissimi per tutti gli spettatori, fatta eccezione per Airotica, non proprio adatto ai bambini. Paradossalmente, quello più efficace nel coinvolgere emotivamente chi guarda è il più povero e minimalista, in cui la moglie e la figlia di Gideon gli fanno una sorpresa, danzando per lui a casa: unico momento, forse, in cui Gideon prende una pausa dalla frenesia della sua vita lavorativa e sessuale, uomo a due dimensioni, per godersi gli affetti trascurati.
Frenetico è anche il montaggio del film, che può contare su un ritmo notevole. La durata delle inquadrature è brevissima, per gli standard dell’epoca; abbondano i primi piani dei volti dei ballerini. Si intuisce come l’intenzione, in gran parte riuscita, sia quella di restituire al pubblico il punto di vista del protagonista, che è sostanzialmente un workaholic abituato a fare colazione con la dexedrina. Quasi tutto il film è filtrato dalla sua ottica, sono le immagini mentali di Joe che vediamo, condividiamo il modo in cui “vede” i numeri musicali nella propria testa. All that jazz può risultare stranamente poco introspettivo, almeno per le ambizioni che ha di fare il bilancio di una vita intera. Ma la contraddizione è apparente, se si tiene conto sia della personalità istintiva, poco razionale, di Joe, che tende a spettacolarizzare tutto, anche la morte, sia dell’impossibilità per i registi della New Hollywood di girare film d’autore privi di compromessi, in un contesto produttivo come quello americano.