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Miracolo a Le Havre

lunedì 28 Novembre, 2011 | di Margherita Merlo
Miracolo a Le Havre
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I pazzi non sono mai stanchi
Se sono i personaggi a creare i mondi che li vedono protagonisti, quelli tratteggiati da Aki Kaurismäki riescono sempre a condurre lo spettatore nella realtà che li contorna, apparentemente isolata e irreale ma quanto mai densa di un’implicita denuncia ai problemi sociali che affliggono la modernità.

Nel caso del suo ultimo lavoro, Miracolo a Le Havre, si presentano sia la malattia che il dramma dell’immigrazione, quest’ultimo sotto le sembianze di un ragazzino africano che cerca di superare la Manica per raggiungere la madre in Inghilterra. Più che surreale o visionario, termini usati ormai troppo spesso e in troppi casi, il regista finlandese è controcorrente: dalla scelta delle musiche, praticamente sempre diegetiche, elementi fondamentali della narrazione, all’uso pacato della macchina da presa, mai impegnata in elaborati movimenti per seguire gli attori, piuttosto in attesa che siano loro ad entrare e uscire dal suo quadro, rimanendo spesso fissa ad immortalare il vuoto lasciato. Ma, al di la di tutto ciò, sono i protagonisti a rimanere maggiormente nel cuore di chi conosce il suo cinema: la loro disarmante semplicità nascosta dal fumo di sigaretta, la calma che li contraddistingue quando ci sarebbero tutte le prerogative per sfociare nell’isteria collettiva. Il mondo li investe e loro non hanno mai un moto di ribellione. Ma dopo il bistrattato e passivo protagonista de Le luci della sera, il sottovalutato lustrascarpe di Le Havre mette in atto un piano di fuga talmente imperfetto da risultare fattibile, lasciando che Kaurismäki costruisca uno dei suoi film più parlati e probabilmente anche uno dei più movimentati dopo il road movie Leningrad Cowboys Go America. Ancora una volta racconta una storia, più o meno di ordinaria follia, senza la pretesa di fare una lezione morale allo spettatore, lasciandolo invece padrone di emozionarsi di fronte alle immagini. Maestro nel creare visioni accostando figure irrazionali, c’era già riuscito in Ho affittato un killer, dove ritrae un ex Antoine Doinel ormai cresciuto, col cappio al collo e la testa nel forno mentre cerca di suicidarsi. Qui rende memorabile il serio commissario vestito di nero, che dimostra di avere un cuore tenero, oltre a un’inaspettata passione per l’ananas.

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