La meraviglia della deformità
«È il più grande aborto di natura del mondo»; brutto, malato, percosso dalla vita e dal suo “padrone”: questa è la storia vera di Elephant Man, vissuto a Londra tra il 1862 e il 1890, affetto dalla “sindrome di Prometeo”.
Capiamo fin da subito che The Elephant Man, secondo film di David Lynch, ruota intorno agli occhi e alla paura. John Merrick è l’uomo elefante, concrezione “carnale” di bruttezza “disumana” e di terribili protuberanze; tanto struggente è il suo aspetto da rigare il volto del medico Treves, che sottrae il fenomeno da baraccone al perfido Bytes per ricoverarlo al London Hospital. Da una parte c’è la gente con la paura del Mostro, essere per cui si piange, si urla, da cui si scappa; dall’altra c’è John che teme la sua stessa deformità perché la vede riflessa sul volto terrorizzato degli altri. La paura è strettamente legata al guardare, feticistico e libidinoso: il regista vuole tutelarci/lo, insegnandoci e preparandoci a guardare il prodigium, ma non direttamente, filtrato attraverso gli occhi di chi guarda, presentandoci i suoi contorni, falsati da cappuccio e pesante mantello. Ma neppure John si vede, anche per lui il suo corpo è una terra straniera, non si è mai visto allo specchio, l’unica superficie riflettente è il volto degli altri. Avvertiamo lo “schifo” e il raccapriccio, vediamo le sue affezioni tumorali attraverso gli occhi dei medici che assistono al congresso, percepiamo le linee del corpo dell’uomo elefante, deformate dalla malattia. John e Treves instaurano subito un rapporto di fiducia, il paziente si mette nelle mani di quel dottore, quell’uomo umano, delicato e lungimirante, che lo accoglie in casa sua, ed è il medico, per primo, che inizia a conoscerlo veramente e in questo gioco di smascheramento anche John inizia a scoprirsi e a capirsi, a prendere coscienza del suo “esserci” nel mondo. L’uomo elefante si spoglia della sua mostruosità a poco a poco per presentarsi solo come John Merrick, anima bella, “di un’intelligenza superiore”, dotato di “mente raffinata”, educato, gentile, maniacale nella cura dei dettagli per fare un’impressione buona. Mentre di giorno i ricchi londinesi vanno a far visita al “caso” per apprezzarne cuore e intelligenza – più cavalcando l’onda del momento che per pietà umana –, di notte John, “visitato” e guardato dalla Londra più infima e squallida, si rigira nel letto e l’occhio del regista si sofferma sulle escrescenze tumorali, sulle mani che stringono forte il lenzuolo, sul corpo che si contorce. The Elephant Man è un film intenso, probabilmente ancora più struggente grazie all’uso del bianco e nero, che scarnifica e “poeticizza” una storia già ricca di crudezza, accarezzando gli animi con occhio diretto ma intriso di lacrime. Quando John è pronto ad avere un suo sguardo, noi abbiamo ormai intessuto con lui un rapporto tale che ci permette di guardare il mondo con i suoi occhi puri e ingenui e le soggettive, le folgorazioni implosive/esplosive – che portano in sé la meraviglia del cinematografo – e piene d’amore (“la mia vita è bella perché so di essere amato”) acquistano un valore dis-umano, sovra-umano, troppo umano.
The Elephant Man [id., USA/Gran Bretagna 1980] REGIA David Lynch.
CAST Anthony Hopkins, John Hurt, Anne Bancroft, Hannah Gordon.
SCENEGGIATURA Christopher De Vore, Eric Bergren, David Lynch. FOTOGRAFIA Freddie Francis. MUSICHE John Morris.
Drammatico/Biografico, durata 123 minuti.