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Cesare deve morire

lunedì 5 Marzo, 2012 | di Andrea Moschioni Fioretti
Cesare deve morire
Speciale
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Una scelta di vita
“L’ultimo film che vide mio padre fu Across the Universe. Mi chiamò, tutto entusiasta, per dirmi che aveva visto un film di pura poesia e con canzoni meravigliose. In quelle parole sentii un uomo di novantuno anni, molto moderno e aperto al nuovo”, questo è uno stralcio tratto dall’autobiografia di Carlo Verdone La casa sopra ai portici edito da Bompiani.

Verdone parla del padre Mario, critico e storico cinematografico, che si sorprendeva ancora, nonostante l’età avanzata, per un film contemporaneo, questa citazione mi fa pensare alla grande modernità e alla voglia di novità che trasmettono Paolo e Vittorio Tavani nel loro nuovo film, premiato meritamente all’ultimo Festival di Berlino con l’Orso d’oro, Cesare deve morire. I due fratelli/registi, entrambi abbondantemente entrati nell’ottantesimo anno d’età, dimostrano uno spirito e uno sguardo cinematografico che non sfigura di fronte a quello dei loro colleghi più giovani, anzi lo supera per sincerità intellettuale.
Decidendo di raccontare l’allestimento e la realizzazione del Giulio Cesare shakespeariano all’interno del carcere di Rebibbia da parte dei carcerati stessi, i Taviani parlano di un mondo e dei suoi protagonisti attraverso le parole del dramma classico, arrivando a mostrarci le paure e i limiti umani dei condannati che si prestano alla recita. Il potente mezzo del teatro che come “terapia” è forse ancora l’arte più adatta e fruttuosa per esorcizzare fantasmi e per affrontare e risolvere dei problemi personali. Chiunque abbia avuto esperienze teatrali, sa che il mezzo è in alcuni casi un modo per esprimersi confrontandosi con i propri limiti, quali la timidezza e la difficoltà di rivivere il proprio vissuto, unico al mondo, è potente perché reale e ritmato come la vita, sei in scena e il pubblico vive quello che fai in diretta senza medium o aggiustamenti rispetto ad esempio al Cinema. I carcerati quindi sono i protagonisti di una storia che li tocca da vicino, tematiche come il tradimento e la lealtà hanno fatto parte della loro vita, alcuni sono in carcere per reati di mafia origine di questi principi. I Taviani usano un montaggio e una tecnica quasi di sperimentazione, il bianco e nero bellissimo e drammatico e la cornice a colori che apre e chiude il film, idee registiche che permettono di cancellare la distanza tra rappresentazione e realtà che non ti aspetteresti da due registi abituati a realizzare, perdonatemi l’aggettivo, cinema classico. I personaggi protagonisti del film hanno le facce giuste che rimangono impresse, profili di uomini autentici e per questo intriganti e vitali, che non sono stereotipi degli uomini della criminalità. C’è chi ha parlato di regia vecchia e creata con uno sguardo troppo invadente, che porterebbe a limare la veridicità della vicenda, invece questa direzione, che è sì molto marcata ma è funzionale soprattutto in alcuni momenti come il finto litigio tra due detenuti, eleva la possibilità espressiva e il percorso umano dei protagonisti che, recitando, scongiurano barriere e difficoltà comportamentali. Quindi più che un semplice film un esperimento concettuale, figlio di Tutta colpa di Giuda di Davide Ferrario affine per tesi e realizzazione. Un film piccolo, per la breve durata, ma con elementi espressivi potenti e moderni, una boccata d’aria fresca nel panorama cinematografico nostrano che per fortuna sta abbandonando la finta idea che si incassa solo con le commedie. Auguriamoci in futuro più fratelli Taviani e che gli incassi li premino per la seconda volta!

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