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Romanzo di una strage

lunedì 2 Aprile, 2012 | di Edoardo Peretti
Romanzo di una strage
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La notte della Repubblica
Il 12 dicembre 1969 a Milano, nella centralissima piazza Fontana, all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura, sulle ultime luci sempre più affievolite degli euforici anni Sessanta del miracolo economico calò il buio della notte della Repubblica.

Per un decennio sul nostro paese si allungheranno le ombre degli anni di piombo, delle brigate rosse e di ordine nuovo, della strategia della tensione, delle voglie di golpe, dei servizi deviati, del sottobosco delle manovre internazionali, del rapimento Moro. Tutti questi fili, in un modo o nell’altro, partono dalla scoppio di quella bomba, evento che ha assunto, oltre alla tragicità insita nel fatto in sé, anche una valenza simbolica. Sette processi e nessun colpevole punito, se si escludono gli esponenti dei servizi segreti condannati per depistaggio, una serie di piste seguite e di teorie sostenute, da quella anarchica a quella di estrema destra, con o senza appoggio di apparati statali e con o senza l’aiuto della CIA, da quella della doppia bomba (una dimostrativa, l’altra per uccidere) a quella dell’alleanza tra estrema destra e anarchici. Senza dimenticare le due morti che si aggiungono alle 17 vittime di quel pomeriggio di dicembre: quella dell’anarchico Giuseppe Pinelli e quella del commissario Luigi Calabresi. Per colmare quella che era una grave mancanza della nostra cinematografia, l’assenza di un film dedicato alla strage (ed è curioso vedere come anche l’altro dramma che simbolicamente definisce gli anni di piombo, la strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980, non abbia un suo film), Marco Tullio Giordana sceglie uno stile asciutto e decoroso per cercare di offrire un resoconto il più chiaro ed esaustivo possibile, anche grazie all’uso frequente del montaggio alternato. La ricerca della fedeltà storiografica si regge su un verismo che si mostra, per esempio, nella somiglianza degli attori con i personaggi (particolarmente Fabrizio Gifuni nel ruolo di Aldo Moro), nel minimalismo degli arredamenti e degli ambienti, o nell’uso dei dialetti. Rimane il ruolo importante ricoperto nel cinema del regista milanese, dove pubblico e privato sembrano andare a braccetto in sprazzi di contenuto melodramma, dai rapporti affettivi e soprattutto familiari: lo si vede, per esempio, nelle scene dedicate a Licia Pinelli e al suo orgoglioso contegno. A livello di contenuti, Giordana è bravo, in una vicenda in cui è chiaro come il sole che c’entrino settori deviati delle istituzioni, ma non è del tutto bene chiaro chi, quanto e come, a mostrare le cose come stanno senza però cadere nell’errore di un’eccessiva dietrologia, accennando anzi a quella che era una vera e propria guerra interna ai piani alti dello stato e alla D.C. tra “golpisti” seguaci della strategia della tensione e coerenti servitori dello stato. Asciugando ogni eccesso retorico di sdegno preconfezionato, Giordana cerca quindi di dare conto di tutta la complessità della vicenda evitando di sostenere con chiarezza una tesi precisa; lo si vede, per esempio, nella scelta di fare avvenire la morte di Pinelli fuori campo, o di non inquadrare il volto di chi quel giorno è sceso dal taxi, o nei discorsi detti da Aldo Moro alla presenza del presidente Saragat. L’unica eccezione è quella di avere glissato sulle responsabilità di Lotta continua sull’omicidio Calabresi: il film lancia il sospetto che sia stato ucciso per trame oscure e non da membri del gruppo di estrema sinistra, un’ipotesi non convincente.

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