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To Rome with Love

lunedì 23 Aprile, 2012 | di Matteo Quadrini
To Rome with Love
Speciale
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Viaggio in Italie da sogno
La senilità induce clemenza, ma perché? Al contrario, spesso dobbiamo attenderci un accumulo di saggezza da chi l’ha già espressa e non accettare rasserenati un’involuzione permanente.

Woody Allen negli ultimi anni ha diviso il suo pubblico, tra i delusi scettici e gli affezionati indulgenti. Ma quest’indulgenza ha motivo di esistere solo remotamente. C’è chi dice che è naturale non aspettarsi più da Allen un nuovo Manhattan o un Broadway Danny Rose. Il problema è che non si può più pretendere da Allen nemmeno un Anything else… Allen infatti non rifà soltanto o semplicemente lo stesso film: ora isola quel che è stato il suo cinema in una bolla di sapone. Questa bolla di sapone è così artificiale da generare drammi che sono pessimisti per necessità, ovvero storie risicate che si ergono a dimostrare una visione del mondo tanto sentenziosa quanto facilmente tragica, con icone rudimentali di teoremi senili al posto di personaggi; ma il filtraggio purtroppo peggiora con le commedie, quel genere che Allen era riuscito a innovare più di qualsiasi altra coscienza intellettuale negli ultimi quarant’anni. Da Vicky Cristina Barcelona, in particolare, Allen soffre il complesso di Almodóvar: due registi isolati fermamente in un involucro cinematografico morto perché incapace di nuove cellule, votati con esclusività o alle proprie angosce o ai propri sogni nel cassetto, immunizzati dal presente. Due registi che soffrono di autoreferenzialità assoluta. Almodóvar sta producendo dei film che sono cavie per una personale terapia e Allen s’immola a turista cieco delle metropoli. To Rome with Love è tutto ciò che resta di un cinema che omaggia i suoi modelli (la storia degli sposini a Roma è un adattamento contemporaneo di un film di Fellini che Allen ama molto, Lo sceicco bianco) e le rovine di una città che si vede solo rovinata, cioè passata e trapassata. Forse Allen ha scelto il film di Fellini sbagliato, perché doveva rivedersi Roma, oppure leggersi il Viaggio in Italia di Goethe. Le sue quattro storie episodiche, infatti, sono tanto slegate da Roma quanto senza Italia. O meglio, l’Italia c’è, ma quella agiografica che non è mai esistita, l’Italia come monumento vivente, l’Italia morta che uno straniero insiste anacronisticamente a dichiarare viva. L’italiano non c’è: Allen non lo conosce minimamente e filma solo quello che vorrebbe vedere. È una delle peggiori critiche che si possono fare a un intellettuale come Allen, insieme all’accusa di aver paradossalmente assunto una qualunque concezione benestante, indaffarata in scandaletti, in pochade, in visioni private e in mondi esclusivi, lui che da quella borghesia si era sempre difeso con l’umorismo. L’unico episodio che interrompe gli schemi del regista riguarda l’illusorio successo di un uomo qualunque (Benigni) perché uomo qualunque: una realizzazione della famosa preveggenza di Warhol sui quindici minuti di successo che ognuno avrà in futuro. Ma è un episodio che potrebbe valere anche per l’uomo americano e comunque non dimostra nient’altro che l’inconscio desiderio di apparire del ceto medio; un ennesimo racconto-dimostrazione appunto. C’è anche il beccamorto che si rivela grande tenore ma canta su un palco solo sotto la doccia: e allora? O peggio: l’ennesimo racconto morale di un giovane ebreo a Roma, però Allen non è Rohmer.
In tempi di crisi questo non è nemmeno cinema d’evasione ma solo creazione turistica sterile, irreale e irritante per uno spettatore cosciente. È legittimo concedersi favole, ma come Kaurismäki con la dignità di Miracolo a Le Havre. E il cambiamento di Allen si nota anche dal pubblico: prima si andava a vedere Allen per un antidoto intellettuale semiserio; ora si va a vedere Allen per fedeltà, perché Allen garantisce l’esistenza o la reviviscenza di un cinema che altrimenti sarebbe sepolto. Da moderno a reazionario, almeno in arte.

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