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Albatross

lunedì 6 Agosto, 2012 | di Lapo Gresleri
Albatross
Inediti
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INEDITO – GRAN BRETAGNA, 2011

L’albatro abbattuto
Niall MacCormick, apprezzato regista televisivo inglese (Margaret Thatcher: The Long Walk to Finchley, The Song of Lunch), debutta al cinema con le vicissitudini di Emelia, moderna Lolita e aspirante romanziera discendente di Arthur Conan Doyle.

Infarcito di luoghi comuni e stereotipi da commedia familiare – padre fallito e fedifrago, moglie delusa e nevrotica, figlia rigida, ma pronta alle esperienze giovanili che le si presentano, e giovane conturbante estranea alla famiglia e per questo portatrice di rivoluzionari cambiamenti nel nucleo precostituito – (l’)Albatross vola basso, anzi non spicca proprio il volo, resta a terra nel vano tentativo di aprire le sue poderose ali e librarsi in aria. Il rimando alla poesia di Baudelaire non è casuale, come non può non esserlo (si spera!) per il regista. Guardando al titolo del film, che per un’ora e mezza non fa che girare su se stesso riproponendo scene e schemi narrativi più che noti, i versi dell’autore francese diventano l’unico appiglio possibile per tentare una riflessione su un prodotto comunque vacuo e sterile di contenuti, adatto a una palinsesto pomeridiano più che a una sala cinematografica. Baudelaire trovava il perfetto corrispondente in natura del poeta nell’albatro, “Che abituato alla tempesta ride dell’arciere;/ esiliato sulla terra fra gli scherni,/ non riesce a camminare per le sue ali di gigante”. Le ali del volatile diventano metafora delle doti del letterato, che gli permettono di sollevarsi sul genere umano, ma allo stesso tempo diventano oggetto di scherno e ludibrio da chi non ne comprende il valore. In quest’ottica è forse decifrabile l’atteggiamento di Emelia, ragazzina audace e snob che nasconde dietro tali comportamenti una spiccata sensibilità, mossa dal desiderio di emulare il suo noto antenato. Così i rapporti conflittuali con la madre dell’amica Beth e sua datrice di lavoro, ossessionata dalla produttività e dall’efficienza dell’albergo di proprietà, a scapito del lavoro intellettuale del marito (e di conseguenza della stessa Emelia), si fanno forme di difesa e di protezione di un proprio io troppo vulnerabile per essere mostrato a chiunque. Allo stesso modo, la superiorità intellettuale dimostrata con lo spocchioso e saccente aspirante studente di Oxford, non è che un tentativo di affermare se stessa in un ambiente da dove invece è automaticamente esclusa proprio per il suo portamento. E come ogni artista maledetto che si rispetti, anche lei ha una vena di perdizione, identificabile negli approcci più che espliciti con il maturo scrittore nonché padre di Beth. Ma come in ogni “buon” prodotto televisivo che si rispetti, affinché venga accolto positivamente dal pubblico, deve essere portatore di sentimenti e propositi positivi ed edificanti. E dunque, pur se Emelia porterà più o meno volontariamente allo sfascio la famiglia che l’ha accolta, il suo legame filiale con i nonni e la scelta di dare una svolta e un senso alla propria vita, diventano i punti di forza (moralista) del personaggio, ritratto edulcorato di un disagio giovanile non per forza necessario, ma spesso comodo per giustificare una condotta estranea al ben pensare comune. L’albatro viene così abbattuto, lasciato agonizzante a terra, in un piatto risultato che lascia lo spettatore desideroso di porre fine anticipatamente alla tortura inflittagli, piuttosto che soffrire fino all’inevitabile e prevedibile finale.

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