Speciale 69° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia
GIORNATE DEGLI AUTORI
Un classico sempre nuovo
La fortuna della favola Pinocchio non conosce limiti temporali. L’opera di Carlo Collodi è stata oggetto di una trasposizione in cartone animato anche nell’ultimo lungometraggio di Enzo d’Alò, presentato nella sezione Giornate degli Autori alla 69° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
La storia è nota, e viene ripresa con grande fedeltà rispetto ad altre riduzioni per il grande schermo, lasciando spazio a personaggi meno noti e togliendo risalto alla figura di Lucignolo e all’episodio della balena. Ovviamente il burattino domina su tutti, saltimbanco di una buffoneria irriverente, che lo rende pericoloso per se stesso e gli altri. Maleducato, molesto, ma in fondo non cattivo, solamente bisognoso di affetto, Pinocchio è un pagliaccio dalle movenze slapstick che stravolge al suo passaggio ogni cosa. E’ però anche un bambino curioso, che rappresenta bene le gioie della sua età, in cui il fanciullo inconsapevole non lascia spazio alle frustrazioni del mondo adulto, ma concede la propria fiducia incondizionatamente a buoni e malvagi. L’intento pedagogico del racconto non emerge con i toni moraleggianti del classico del 1940 (che in puro stile Disney mischia abilmente il registro più sentimentale con atmosfere cupe e tenebrose), ma non passa nemmeno sottotraccia l’apologia dell’onestà che la storia vuole rappresentare, insieme all’importanza degli affetti e del prossimo. Il film di d’Alò punta su ritmi elevati e un dinamismo travolgente che lascia poco spazio ai momenti di distensione tipici de La gabbianella e il gatto: pochi gli attimi di respiro, ipercinetico il movimento dei singoli personaggi che danzano su paesaggi statici dall’accecante color pastello. Di tanto in tanto si perde la poesia delle opere precedenti, in un film forse un po’ monocorde, quasi condizionato dalla necessità di stringere i tempi del racconto, ma che rappresenta ancora un buon esempio di cinema d’animazione, libero dal ricorso a una tecnologia eccessiva. La narrazione spinge sull’acceleratore, senza però impedire all’occhio di spaziare su una tavolozza ricca di contrasti, dal blu plumbeo delle scene notturne ai giochi del paese dei balocchi, allucinato e perverso, simbolo di un divertimento narcisistico e fine a se stesso.