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In questo numero

Fanny e Alexander

giovedì 6 Settembre, 2012 | di Eleonora Degrassi
Fanny e Alexander
Festival
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Voto autore:

Speciale 69° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia

VENEZIA CLASSICI
“L’immaginazione fila e tesse nuovi disegni”
“Credo che la maggior parte di noi sia ancora nella parte più intima dell’anima un bambino. Alcuni hanno canali aperti con la parte adulta della loro mente. Da bambini eravamo tutti affascinati dal mistero. Io vivo molto vicino alla mia infanzia, perciò non è difficile per me ricordare quello che pensavo allora di Dio e dei demoni, delle fiabe e della magia” (Ingmar Bergman, intervista di Maria Serena Palieri, L’Unità, 4 settembre 1983).

Non ci sono parole migliori per descrivere il magma emotivo ed esistenziale da cui è nato Fanny e Alexander (pensato originariamente per la tv), film di Ingmar Bergman del 1982, vincitore di quattro premi Oscar, che rappresenta per molti versi un congedo e un testamento del regista svedese. Il film racconta della famiglia Ekdahl di Uppsala e degli avvenimenti tra il 1907 e il 1909. Peccato, confessione, punizione, perdono e grazia, questi sono i cardini della religione luterana – religione dello stesso Bergman – gli stessi su cui si poggia l’intero Fanny e Alexander.
Dopo la morte del padre, Alexander e Fanny sono costretti a lasciare la loro casa per trasferirsi con la madre dal suo nuovo marito, il vescovo Vergérus. Se da principio Alexander è il figlio amato dalla famiglia, appassionato di teatro, subito dopo su di lui si abbatte la vita con tutti i suoi paradossi e i suoi voltafaccia: il bambino entra nel rigore e nel vortice malato del fanatismo religioso del patrigno, malvagio e violento, che lo porta constatare ciò che aveva già detto Nietzsche ne La Gaia Scienza, “Dio è morto”. Al centro dell’opera ci sono alcune delle tematiche più care all’autore, il teatro, la religione, la magia, rappresentati dalle tre case tra cui si sposta la narrazione (quella di Helena Ekdhal, la nonna dei bambini, in cui si vive di lanterne magiche e pièce teatrali; quella di Vergérus dove si prega, si anela a Dio in modo ossessivo; quella dell’ebreo Isak Jacobi, in cui mistero della vita e teatro si fondono). Alexander e Fanny sono al centro della classica lotta Bene-Male in cui il Bene è rappresentato dall’ebreo Jacobi – che li salverà e darà loro ospitalità nella sua casa-teatro, fatta di maschere, burattini e labirinti – e il Male dal vescovo Vergérus – che invece renderà la loro vita impossibile.
Fanny e Alexander è storia, favola, vita, summa di tutte quelle gioie, dolori, paure e spinte che caratterizzano l’esistenza di ognuno. Bergman unisce dramma e commedia, pochade e tragedia, in un alternarsi vitale e “terreno”, prendendo come modello la vita stessa: intrighi amorosi e punizioni corporali, lanterne magiche e fantasmi paterni, rancore filiale e amore materno fanno la loro parte, lasciando posto poi ad altri “attori”; Vita e Teatro, Realtà e Finzione, essere se stessi o interpretare un ruolo diventano questioni di cui parlare, argomento di cui disquisire.
Bergman ci conduce per mano in quel coagulo di emozioni e palpiti che la vita ci dà, ci scuote con le paure, le angosce più nascoste, quelle che ci fanno sobbalzare e ci tolgono il respiro la notte, ci fa sorridere, di quel sorriso che possiede solo chi ha sofferto: davanti a Fanny e Alexander si vive un’esperienza misteriosa e spaventosa insieme, di amore e di odio, di estasi e panico, favola e incubo dove, come dice Helena Ekdal, “tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile”.

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