Il rapimento Moro è stato sia il punto di non ritorno sia, sotto molteplici punti di vista, il simbolo degli anni di piombo e della lunga notte della Repubblica italiana. Ne consegue che la raffigurazione di Moro nell’opinione pubblica si sia bloccata al momento del ritrovamento del suo cadavere, in una sorta se non di “mitizzazione”, per lo meno di forte idealizzazione, della sua figura, considerata come una sorta di martire della democrazia e alla stregua di un santo della nazione (sono realmente partite richieste di una sua canonizzazione da più parti), in qualche modo estranea e opposta al torbido contesto politico di cui in realtà era protagonista di primo piano.
Il nostro cinema ha avuto un ruolo di primo piano in questa costruzione mitologica: non tanto nei film dedicati al racconto e alla rilettura del rapimento e delle indagini (il cronachistico Caso Moro di Ferrara e l’effettistico, ricattatorio e storicamente improbabile Piazza delle Cinque Lune di Martinelli), quanto in opere in cui Moro ha un ruolo secondario, o in opere più oniriche e antinaturaliste che si concentrano sul rimosso. Per esempio, in Romanzo di una strage di Giordana: qui la rappresentazione di Moro si ispira nei gesti e nelle parole alla raffigurazione dei martiri e dei santi, estrapolandolo un po’ dalla realtà storico/politica di cui era parte, particolarmente quando afferma che per l’Italia è indispensabile un cataclisma e che lui è pronto a sacrificarsi e ad esserne la prima vittima (frase detta in chiesa e con un movimento di macchina che lo associa alla natività di un presepe).
Ne Il divo di Sorrentino, invece, Aldo Moro è una sorta di fantasma della coscienza del protagonista Giulio Andreotti, in un chiaro gioco di contrapposizione: da una parte Andreotti, simbolo e incarnazione del potere nei suoi aspetti più torbidi e oscuri, dall’altra Moro, al contrario simbolo dell’onestà, della verità e della politica buona, vittima di un potere in cui era corpo estraneo.
Infine, Buongiorno, notte di Bellocchio, dove Aldo Moro funge piuttosto da simbolo del rimosso e dei sensi di colpa, della nazione in generale e di parte dell’opinione pubblica di sinistra che aveva sottovalutato il fenomeno del terrorismo rosso in particolare: l’ultimo fotogramma in cui lo statista passeggia per le strade di Roma quasi entrando nella m.d.p, accompagnato dalle soavi melodie di Schubert contrapposte alla psichedelia dei Pink Floyd durante le celebrazioni ufficiali e la sfilata dei volti del potere, è l’espressione di un desiderio realizzabile solo nel sogno e nella “realtà-cinema”, che permette di cancellare gli errori, le sottovalutazioni e i sensi di colpa.