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A lezione da Vincenzo Cerami

mercoledì 24 Luglio, 2013 | di Sara Martin
A lezione da Vincenzo Cerami
Editoriale
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Qualche giorno fa ci ha lasciati il grande sceneggiatore, scrittore e drammaturgo Vincenzo Cerami, autore di decine di sceneggiature cinematografiche, da Un borghese piccolo piccolo (suo anche il romanzo da cui è tratto il film diretto da Monicelli) a La vita è bella che gli è valso la candidatura all’Oscar. Cerami è stato un maestro per le giovani generazioni di scrittori e ci ha lasciato pagine importanti sul mestiere dello sceneggiatore.

Lo vogliamo ricordare qui riproponendo una straordinaria lezione sulla scrittura del personaggio cinematografico, pubblicata nel suo Consigli a un giovane scrittore. Narrativa, cinema, teatro, radio (Milano, Garzanti, 2002, pp. 81-86)

Il personaggio e l’autore
È necessaria una […] precisazione sul rapporto tra il narratore e la sua opera, […] che riguarda la posizione dell’autore nei confronti dei personaggi e in modo particolare del protagonista. Per posizione intendo la distanza culturale, psicologica e sociale che separa il narratore dal protagonista (dai protagonisti).
Le posizioni sono tre:

mediacritica_a_lezione_da_vincenzo_ceramia) lo scrittore è superiore al personaggio
b) lo scrittore è a livello del personaggio
c) lo scrittore è inferiore al personaggio

Passiamo velocemente in rassegna le tre posizioni mettendo a fuoco vantaggi e rischi di ognuna di esse.

a) Lo scrittore è superiore al personaggio
Il narratore conosce il personaggio fin nei più oscuri e profondi recessi dell’animo. Prevede ogni sua mossa, indovina ogni sua reazione. Il personaggio sarà quindi sempre conseguente al suo carattere, anzi ne rappresenterà il paradigma. E questo potrebbe essere il suo limite, perché rischia di agire come una maschera, come prototipo di una categoria di personaggi che si somigliano e che possiedono un repertorio comportamentale che lo scrittore conosce in tutte le sue variazioni. La narrazione tende così a prendere un tono ironico, e talvolta beffardo o divertito. Mi vengono in mente gli strozzini, i bottegai, le mezze maniche, i vili borghesucci di Dickens. Ma anche le figure di Gogol’ o gli impiegatine di Cechov. […] Questi sono esempi altissimi, ma non poche volte gli scrittori minori, nel cercare di evitare “la figurina” hanno imboccato la strada del patetismo o del sentimentalismo. La caricatura è la massima degenerazione di una posizione come questa: il personaggio non esiste praticamente più, non agisce se non in obbedienza a uno schema che gli preesiste. Conoscere un personaggio non vuol dire affatto “dominarlo”, prevederlo nelle sue mosse. […] La scelta di porsi al di sopra dei personaggi richiede nello scrittore lo sforzo di cercare una qualche irripetibilità, originalità, unicità nel carattere scelto. Senza dimenticare che nel trattare personaggi tecnicamente inferiori al narratore entriamo fatalmente in quel genere di racconti […] dove essi sono in conflitto con il loro ambiente. La storia di un piccolo uomo, per esempio, è in realtà il racconto di un ambiente oppressivo, che rimpicciolisce gli uomini.

b) Lo scrittore si pone allo stesso livello del personaggio
La tendenza spontanea è una identificazione […] con il protagonista. Non pochi sono quindi i dati misteriosi che ne vengono fuori. Il narratore, nel far agire la sua creatura, si pone di volta in volta il problema della coerenza, di una riconoscibilità. Infatti la domanda che torna spesso è la seguente: “Ma lui agirebbe così, direbbe una frase come questa?”. E ogni risposta trovata è un ulteriore moto di avvicinamento al personaggio, nel quale si rischia continuamente di perdersi, di rappresentarlo con contraddizioni che lo rendono imprecisato, evanescente, incomprensibile. Di qui la particolare attenzione nella definizione del suo lessico: esso non è dato in partenza (come nel caso precedente), ma si costruisce sulle situazioni drammaturgiche. Anzi, alcune di queste sono costruite apposta per definire il personaggio, per inquadrarlo nel suo carattere, nella sua cultura, nel suo ambiente. Una conflittualità, per essere messa in scena, ha bisogno che siano ben definiti i termini che la scatenano, e quanto più nel protagonista risultano autentiche le ragioni della sua conflittualità, tanto più efficace sarà il racconto. Ma per far questo, appunto, è necessario un ritratto complesso e coerente. La qual cosa richiede a sua volta, da parte dello scrittore, una distanza critica. Il rischio più evidente che si corre è di “appiattirsi” sul personaggio. […] La vicenda in questa seconda posizione ha quasi sempre come sbocco narrativo finale (esplicito o implicito) proprio la definizione del personaggio. Poiché lo sforzo principale dello scrittore è metterlo a fuoco, la drammaturgia diventa il resoconto di un tale sforzo. La storia si chiude in quel certo modo solo perché il personaggio è fatto in quel certo modo. Come dire che il personaggio determina fortemente la storia e che una storia sta in piedi a condizione che il personaggio sia fatto in un certo modo. […] Nella parità tra narratore e personaggio, vista la necessaria complessità di quest’ultimo, le storie sono spesso il racconto di una personalità.

c) Vediamo il caso in cui il narratore è inferiore al personaggio
Lo scrittore si sceglie un protagonista che conosce poco e che non può conoscere a fondo perché gli è del tutto estraneo. Questa inferiorità non è necessariamente intellettuale o sociale o psicologica, non è di rango insomma. In genere si tratta di personaggi stravaganti, sorprendenti, come molte figure di fiaba: maghi, fate, streghe, draghi. Ma possono anche essere personaggi monomaniaci, come scienziati, poeti, barboni, pazzi. Il più delle volte, però, sono figure la cui personalità, nella vicenda, non è determinante. Al contrario del caso precedente, qui il personaggio si mette al servizio della storia. Il naturalista esperto di minerali che conduce una spedizione nelle viscere della Terra alla ricerca di una pietra preziosa, trasmette al lettore le emozioni che provoca un paesaggio meraviglioso, mai visto prima. Farà da filtro tra questo paesaggio e il lettore. Solo lui infatti, esperto come è, potrà svelarci gli occulti segreti di tanta bellezza. Il rischio che corre un personaggio così concepito è di essere una tinca, come si dice in gergo. È un termine con il quale conviene familiarizzare perché, nel costruire una storia, il narratore si imbatte spesso in personaggi tinca. Probabilmente il termine deriva direttamente dal pesce e sta a indicare un tipo inespressivo, imbambolato come un pesce. Quando costruisce un personaggio la prima cosa che uno scrittore si deve chiedere è se non sia per caso una tinca, qualcuno cioè messo lì al puro servizio della storia, senza una sua personalità, senza un carattere preciso. Molte apparizioni con funzione di deus ex machina sono, ad esempio, tinche. […]

Nota bene: non bisogna confondere un personaggio secondario con la tinca. Questa ha un evidente scopo strumentale: è importante perché “porta avanti” la trama, ma è una figura estranea che serve a raccontare gli altri e non ci dice nulla di sé. Un personaggio “non utile alla vicenda”, che compare cioè per poco tempo e una sola volta senza altro scopo se non di rendere espressiva una situazione, è secondario. Egli diventa tinca se è indispensabile per un risvolto narrativo.

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