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Monte Hellman

mercoledì 28 Agosto, 2013 | di Michele Galardini
Monte Hellman
Festival
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SPECIALE AUTORI VENEZIA 70 – PARTE II


Il cinema svuotato
Dopo i grandi miti, le star, i generi, i valori universali, la magia, la narrazione, l’illuminazione in chiave, l’ormai non più classico cinema hollywoodiano verso la metà degli anni ’60 viene travolto da un fenomeno anomalo chiamato Monte Hellman.

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Il regista newyorkese, classe 1932, in anticipo di qualche anno sulla New Hollywood, riporta la narrazione ad un livello superiore di astrazione filmica, nel quale non esistono intenti chiari e dichiarati, non esistono protagonisti e forse non esistono nemmeno personaggi ma solo uomini e donne che vivono davanti alla macchina da presa. Una cifra stilistica che negli stessi anni viene sperimentata anche da un altro grande padre del cinema post-Studios, John Cassavetes, che tutt’ora ha il pregio di destabilizzare lo sguardo e le previsioni dello spettatore, lasciandolo preda degli eventi, quasi lo schermo fosse una cella dalla quale non riusciamo e non vogliamo evadere. Succede così nel suo dittico western elevato dai posteri a summa della sua arte, Le colline blu e La sparatoria, entrambi interpretati da un Jack Nicholson nemmeno trentenne che nel secondo caso decise anche di subentrare come co-produttore, dopo aver già lavorato con Hellman per due horror usciti nel 1964 (Flight to Fury e Back Door to Hell), vedendo più avanti di qualunque altro giovane attore/produttore del periodo. Due western low budget, con pochissima azione e poco piombo sparato, a scapito del titolo del secondo film. Due storie sospese, oscure, che spesso si sviluppano durante la notte, in controtendenza con l’idea del western precedente, pensiamo al John Ford delle grandi pianure di Ombre rosse, e successivo, ad esempio negli scontri al rintocco di campana in campo aperto di Sergio Leone. E assolutamente innovativo è anche il ruolo dei protagonisti: nel caso di Le colline blu sono tre cowboy scambiati per banditi e braccati dentro una strada senza uscita. In entrambi i casi qualcosa non torna, qualche passaggio fondamentale nella comprensione della storia ci viene celato, per sempre, senza possibilità di interpretazioni-fiume in stile Mulholland Drive. Dovremmo arrenderci fin da subito allo stile di Hellman ma tentiamo di cercare significati alti, narrazioni forti, fatti imprescindibili. Allo stesso modo non riusciamo ad arrenderci all’evidenza di un’assenza: quella di obiettivi e di oggetti del desiderio forti in un altro film, Strada a doppia corsia, interpretato, ma sarebbe meglio dire abitato, da due cantanti rock, James Taylor e Dennis Wilson, sguardo fisso e piede sull’acceleratore della loro Chevrolet truccata. Il Pilota e il Meccanico, due categorie che si fanno nome per sottolineare l’abbandono di ogni identificazione con un mito, quello della strada, che non esiste già più due anni dopo Easy Rider, trasformato da simbolo di libertà a gabbia di inconsistenza. In questo annullamento di ogni messaggio si legge la possibilità di un cinema metafisico, diverso, anormale, che ha avuto pochi successori ma che Hellman continua caparbiamente a insegnare al California Institute of the Arts e in alcuni seminari casalinghi. Dei suoi allievi quello forse più celebre è Quentin Tarantino, il giovane scapestrato che nel 1992 scrisse e diresse Le iene, prodotto fra gli altri anche dal signor Hellman, e che nel 2010 a Venezia gli ha consegnato il Leone d’Oro alla carriera.

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