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In questo numero

Cinema italiano ed emigrati italiani: carrellata su un rimosso?

sabato 25 Aprile, 2015 | di Edoardo Peretti
Cinema italiano ed emigrati italiani: carrellata su un rimosso?
Editoriale
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Mediacritica non è una rivista d’attualità, e cerca anzi di differenziarsi dalla sterilità degli opposti estremismi che spesso caratterizzano il dibattito pubblico. È inevitabile, e doveroso, che analizzando il cinema e i vari vecchi e nuovi media, traspaia una certa visione del mondo, e non vogliamo essere neanche una rivista che si isoli in una sorta di iperuranio cinefilo estraneo alla realtà.

Il cinema può infatti tornare utile a capire certi aspetti legati, a livello di “reazioni”, ad uno degli eventi più tragici degli ultimi giorni: l’olocausto dei migranti nel canale di Sicilia. Si dice, spesso in maniera più retorica e storicamente vaga, che l’Italia ha disconosciuto il suo passato di popolo migratorio. La consapevolezza diffusa della nazione riguardo questo fenomeno c’è però mai davvero stata? E il nostro cinema ha contribuito a formare una coscienza a riguardo? L’emigrazione degli italiani ha, sia nella sua importanza sociale e politica sia come serbatoio narrativo e di immaginari, avuto il risalto di altri aspetti dell’attualità coeva? La risposta, aldilà del valore dei singoli film, può serenamente essere no.
Per il cinema italiano l’emigrazione italiana è stata quasi un rimosso. Questa rimozione è simbolo del disagio provato da buona parte della cultura, dovuto soprattutto all’incapacità di voler affrontare un fenomeno che si considerava segno dell’incompiutezza della nazione, con pure qualche inconscio senso di colpa e di inadeguatezza nel volersi mettere nei panni dell’emigrante. Un po’ come se l’emigrato, con la sua scelta, non facesse più parte dei già numerosi dilemmi di una nazione in costruzione. Lo dimostra la densità di opere a riguardo nel neorealismo: qualche melodramma strappalacrime, e due film dedicati all’esodo clandestino in Francia, Fuga in Francia di Soldati (1948) e Il cammino della speranza di Germi (1950). Nel primo però, come capiterà spesso, il tema è perlopiù strumentale all’asse portante dell’opera – gli strascichi del fascismo –, mentre il secondo rimane una delle poche opere, sia per la vicinanza umana espressa che per la lucidità nel rappresentare cause e conseguenze, davvero importanti a riguardo. Con la graduale diminuzione dei flussi, l’attenzione si sposta sulle comunità radicate o in fase di radicamento: I magliari di Rosi (1959) e La ragazza in vetrina di Emmer (1961), ambientati rispettivamente in Germania e in Belgio. Decisamente più aderente, a livello psicologico e morale, alle condizioni degli espatriati il secondo, mentre nel primo l’emigrante è usato come specchio per rappresentare le mentalità e gli status symbol della nuova Italia del boom. Schema che la commedia all’italiana userà spesso, che da un lato pare sì confermare “l’italianità” dell’emigrato, ma che dall’altro conferma il disagio nell’affrontare davvero a fondo l’argomento. Due eccezioni: il film a episodi di Nanni Loy Made in Italy (1965), dove il viaggio di un gruppo di italiani in Svezia fa da raccordo ai vari capitoli del film, e dove gli emigrati sono dipinti come opposizione ai “mostri” raccontati nei vari capitoli e, in un certo senso, come vittime di questi. La seconda è il miglior film sull’argomento: Pane e cioccolata di Brusati (1974), il più lucido e completo, quello in cui la vicinanza umana è più accompagnata dalla consapevolezza del fenomeno e della sua portata. Con i flussi relegati ormai al passato, nell’ultima parte di secolo, non mancano ricostruzioni storiche ed epiche, come Lamerica di Amelio (1994) o Nuovomondo di Crialese (2006). Omaggi a un fenomeno che è ormai considerato pienamente storicizzato, o, ancora una volta, strumento per parlare d’altro, in questo caso le immigrazioni. Raramente, aldilà della sempre presente vicinanza umana, il tema è stato quindi davvero sentito dal nostro cinema che, preferendo glissare, è stato testimone dell’incapacità della nazione di metabolizzare e voler capire appieno il fenomeno: se non nella contemporaneità come forma di vaga retorica. Per concludere è quindi significativo il finale di Pane e cioccolata, che può anche essere letto come simbolo dello scollamento tra emigrato e madrepatria.

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