Ho visto Fury. E mi è piaciuto. Eppure per almeno metà del film volevo convincermi che fosse antiquato, superato, ideologico. Ho visto Fury, parlava di americani e nazisti. Sempre nel solito modo. E Brad Pitt è troppo bello per fare il soldato.
Eppure. Eppure Fury è un gran film. Perché David Ayer, che di divise se ne intende, anche se normalmente di sbirri, corpi speciali e detective, ha sempre il solito vizio. Chiuderci in una notte, in una macchina, in una storia. Impedirci di guardare l’orizzonte, ma soffocarci con l’umanità di fronte alla catastrofe, all’abiezione, a qualcosa di più grande dei protagonisti.
E Fury, un po’ Hurt Locker e molto Lebanon, quando sembra denunciare il suo debito eccessivo con il cinema bellico più datato ti scaraventa dentro quel carro armato che la guerra prova quasi a vincerla da solo. Un gruppo di svitati che come i 300 di Leonida non pensano a sopravvivere e neanche alla gloria, ma a un codice d’onore. E non lo fanno per il Paese, ma per quel cameratismo, quell’etica distorta che hanno scritto con il sangue, intinto nella polvere da sparo, forgiato con le granate. E che Ayer sa indagare nei suoi sentieri più oscuri, da sempre, come la distorsione emotiva che una situazione estrema provoca su di te. E tu, che fino a un attimo prima giudicavi da fuori, ti ritrovi sporco e sudato con loro. A fare ciò che non dovresti, a pensare scorrettamente, a vivere la loro ruvida e in alcuni casi insopportabile condizione.
E così, Fury in un attimo diventa personalissimo e universale. E incassa anche a ridosso di un’estate che si promette più asfittica, al botteghino, delle ultime già non esaltanti. Perché parla di nazisti, ma ci racconta le guerre sporche di oggi. Con due donne sequestrate per sentirsi normali. Con un uomo che cerca di rimanere vivo, in tutti i sensi. Con dei fratelli di trincea. Brutti (tranne Brad), sporchi e cattivi. Ma diventano anche i tuoi fratelli.
E questo cinema diventa fondamentale. Oggi, ieri, sempre. Perché la guerra non è solo un’assurda costante della nostra Storia, un evento che si replica ovunque e sempre. No, è anche qualcosa che riscrive la grammatica visiva delle arti, da Picasso allo stesso Ayer, così come la nostra umanità. La guerra ormai è la traduzione della nostra società. Non è più metafora, ma griglia interpretativa. Stasera si gioca la finale di Champions League Barcellona-Juventus? In campo i tifosi vogliono 11 guerrieri, una lotta all’ultimo sangue, la vittoria a tutti i costi. E in politica? Non si fanno prigionieri, ci sono il leader, gli alleati e i nemici. Ci sono le Caporetto. E si danno battaglia.
La nostra grammatica, il nostro vocabolario sono bellici, impregnati di termini legati ai conflitti. E noi non mettiamo più i fiori nei nostri cannoni, il pacifismo senza se e senza ma – slogan pericoloso e alla fine controproducente – lo abbiamo lasciato al 2003, quando non impedì la seconda invasione dell’Iraq, quando segnò l’irrilevanza di una generazione prima massacrata – appunto, ci sono cascato anche io – a Seattle, Goteborg e Genova, poi ignorata quando i media la definivano la seconda superpotenza (insieme a tutti gli altri manifestanti, ovvio).
Ecco perché il cinema di guerra, anche con la bella faccia di Pitt e la regia di Ayer, qui meno bipolare del solito, è una parte fondamentale del nostro immaginario e del nostro modo di interpretare il mondo. Semplicemente, non ne possiamo fare a meno. Ci colpisce subito, inevitabilmente. Soprattutto se non ci lascia fuori. E quello che inquieta, forse, è proprio che noi italiani non riusciamo a farlo. Se si esclude, forse, Venti sigarette, a cui basta la splendida sequenza di Marchioni alle prese con l’assalto per diventare un gran film, e il capolavoro Diaz di Daniele Vicari.
Non è un fatto di budget, ma di incapacità di andare oltre. Come da troppi decenni ci capita, non sappiamo sporcarci di fango e sangue.