Rappresentazione e coinvolgimento
Un appassionato speleologo americano in viaggio nell’Est europeo, trova in una cava ucraina degli oggetti che testimoniano vita umana vissuta sottoterra. Ricerche storiografiche e umanistiche riportano alla luce la storia di una grande famiglia ebrea che, nell’ultima parte della Seconda Guerra Mondiale, ha vissuto nella cava di gesso visitata dallo speleologo, per salvarsi dai rastrellamenti nazisti.
Attraverso i racconti dei protagonisti, Janet Tobias fa rivivere sullo schermo quei giorni di terrore e dolore. Il suo documentario è strutturato quasi come una ricostruzione storica didattica. Un po’ in stile SuperQuark, i protagonisti del racconto rivivono le vicende della loro infanzia attraverso le ricostruzioni sceniche di attori e comparse. Questa tipologia di rappresentazione non favorisce certo un approccio emozionale coinvolgente da parte degli spettatori. La cronaca sia delle scoperte dello speleologo che delle famiglie stesse viene in qualche modo appiattita nell’interpretazione (certo non magistrale) degli attori messi in scena. In altre parole, viene meno quella promessa di realtà che come testimonianza storica e in quanto documentario viene fatta nell’introduzione. Basato sul libro We Fight to Survive di Esther Sterner, il film si preoccupa spesso di fornire elementi di veridicità dei fatti proposti, ma nel risultato finale viene sempre interposto un filtro che mantiene sempre le immagini a debita distanza dal pubblico, impedendo di fatto un vero e proprio coinvolgimento. Al di là di questo “ostacolo” all’immersione, il film tiene bene il ritmo nonostante la durata abbastanza prolungata per questo tipo di resoconto. La voce narrante, composta in realtà da più personaggi, assume un andamento regolare, come fosse un respiro. Ogni parte di racconto accende una luce su una prospettiva diversa, senza però introdurre scossoni emotivi o elementi che possano variare l’andamento a onda che si va formando. I toni e le modalità di presentazione smorzano quindi una storia interessante e la imbrigliano in una struttura che lascia poche libertà espressive. L’esercizio di stile è senz’altro ben riuscito, ma da una regista come Janet Tobias, dalla lunga esperienza in campo produttivo, ci si aspettava forse uno spessore maggiore, soprattutto per quanto riguarda lo sguardo dello spettatore. Alla fine dei conti, No Place on Earth si pone a metà strada tra l’esatta ricostruzione storica e la drammatizzazione della stessa, senza però definirsi fino in fondo in nessuna delle due direzioni.
No Place on Earth [id., USA/Gran Bretagna/Germania 2012] REGIA Janet Tobias.
CAST Chris Nicola, Saul Sterner, Sam Sterner, Sonia Dodyk.
SOGGETTO Janet Tobias, Paul Laikin. FOTOGRAFIA César Charlone. MUSICHE John Piscitello.
Documentario, durata 83 minuti.