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I miei giorni più belli

sabato 25 Giugno, 2016 | di Juri Saitta
I miei giorni più belli
In sala
2
Voto autore:

La molteplicità dell’essere, la pluralità del cinema
Complesso, incoerente ed enormemente influenzato dal proprio vissuto, anche da quello più lontano nel tempo: questo è l’essere umano secondo Arnaud Desplechin, regista transalpino che con I miei giorni più belli tenta di riflettere sulla molteplicità dell’io e sull’importanza del passato (storico e personale) sull’oggi.

Diviso in cinque parti, il film racconta di Paul Dedalus, antropologo francese che, tornando a Parigi dopo un periodo trascorso in Russia, “ripassa” alcuni momenti della sua vita: la propria infanzia, il viaggio adolescenziale in Unione Sovietica, i suoi anni universitari, segnati soprattutto da Esther, bella e mediacritica_i_miei_giorni_piu_belli_290affascinante ragazza di provincia con la quale ha avuto una lunga e tormentata storia d’amore. Fin dal plot, si intuisce quanto il film si concentri sulla memoria e sull’incidenza del passato sul presente, due problematiche che si evincono tanto dall’enorme spazio lasciato ai flashback – qui assolutamente maggioritari −, quanto dai vari segnali sparsi per tutta l’opera, dal (doppio) documento d’identità alla lettera dell’amico, dalla sfuriata finale del protagonista al collegamento indiretto ma inequivocabile tra l’avventura adolescenziale di Paul in URSS e i suoi successivi viaggi in alcune ex Repubbliche Sovietiche. E se la rilevanza di esperienze lontane sull’oggi emerge attraverso gli elementi citati, la complessità del nostro essere non viene espressa soltanto tramite i sentimenti, le ragioni e i comportamenti dei personaggi, ma anche con delle scelte narrative e linguistiche eterogenee e apparentemente opposte. Nel corso del suo svolgimento I miei giorni più belli cambia genere (passa da una mini spy-story a un racconto romantico) e istanze narranti, tanto che a volte la storia è esposta in prima persona, altre in terza, mentre in alcuni momenti è segnata dallo scambio epistolare tra Paul ed Esther, in quello che sembra essere un omaggio al cinema di François Truffaut. Altrettanto eterodossa risulta la regia di Desplechin, che unisce un’estetica visivamente curata e una messa in scena tendenzialmente classica a delle opzioni formali che rompono con tale linearità, come l’occasionale uso dello split screen, dello zoom e del ralenti. Scelte che rendono l’insieme a tratti frammentario e apparentemente disorganico, ma che mirano in realtà a sottolineare stilisticamente la complessità dei personaggi e il tema più generale della molteplicità dell’io. Una molteplicità che viene espressa proprio tramite la pluralità del cinema e delle sue varie modalità estetiche e discorsive.

I miei giorni più belli [Trois souvenirs de ma jeunesse, Francia 2016] REGIA Arnaud Desplechin.
CAST Mathieu Almaric, Quentin Dolmaire, Lou Roy-Lecollinet, Léonard Matton, Dinara Droukarova.
SCENEGGIATURA Arnaud Desplechin, Julie Peyr. FOTOGRAFIA Irina Lubtchansky. MUSICHE Grégoire Hetzel, Mike Kourtzer.
Drammatico, durata 118 minuti.

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