Il mio corpo non mi appartiene
Altered Carbon rappresenta un traguardo impressionante per la storia produttiva di Netflix: non solo per l’operazione monstre che presiede alla sua realizzazione da un punto di vista tecnico-estetico, ma per la capacità, nell’arco di dieci episodi da poco meno di un’ora ciascuno, di mettere in dialogo i più svariati generi cinematografici con senso del ritmo e altrettanta imprevedibilità.
Costruito come un noir di ambientazione cyberpunk, quale Richard Morgan l’aveva immaginato nel romanzo omonimo da cui è tratto, Altered Carbon racconta di un futuro remoto prepotentemente distopico dove la coscienza di ogni essere umano è sintetizzata in una pila corticale, che fa del corpo un semplice involucro e rende la vita dell’individuo potenzialmente infinita, in un viaggio continuo tra “custodie”, la cui assegnazione è determinata dal potere d’acquisto o dal prestigio sociale dei soggetti. In una società divisa tra ricchi e poveri, tra i Mat (coloro che possono vivere in eterno, “come” Matusalemme) e i comuni cittadini, dove il vero decesso è possibile soltanto distruggendo la pila corticale, si snoda l’investigazione di Takeshi Kovacs − ex soldato interstellare, o Spedi − che in passato partecipò a un tentativo di rivoluzione contro il regime dell’immortalità ma, punito per molti anni, ora si ritrova in un nuovo corpo per risolvere, su incarico del Mat Laurens Bancrofts, il mistero dell’uccisione di quest’ultimo, salvatosi solo grazie al backup della propria coscienza. In cambio per lui, se saprà venire a capo di questo paradossale cortocircuito di eventi, la promessa della libertà definitiva. Inutile sondare ulteriormente la trama, perché la serie è una discesa sempre più vorticosa entro i meccanismi − anche cerebrali − della detective story, ma soprattutto rivela a Kovacs come tutto quello che gli capiti sia soltanto l’anticamera per un tuffo doloroso in un passato irrisolto, fatto del rapporto simbiotico con una sorella da tempo scomparsa, di un amore tragicamente perduto (o forse no) tra le trincee della rivoluzione, e naturalmente delle conseguenze di abitare un corpo che un tempo apparteneva a un altro. La San Francisco del 2384, che molto deve alla psicogeografia metropolitana di Blade Runner e dove a trionfare è la digitalizzazione del reale, diventa il teatro di una riflessione tutt’altro che peregrina, quella del corpo come processo accessorio, perché continuamente intercambiabile, e quindi oggetto esposto alla tentazione di una violazione sempre più estrema. A partire da queste premesse la serie ideata da Laeta Kalogridis avvicenda in modo sorprendente i topoi dell’action fantascientifico e del melodramma, e nonostante alcune concessioni (o omaggi?) al trash, gonfia le aspettative verso una seconda stagione.
Altered Carbon [id., USA 2018 – in corso] IDEATORE Laeta Kalogridis.
CAST Joel Kinnaman, James Purefoy, Martha Higareda, Chris Conner, Dichen Lachman.
SCENEGGIATURA Laeta Kalogridis, Nevin Densham, Richard Morgan. FOTOGRAFIA Martin Ahlgren, Neville Kidd. MUSICHE Jeff Russo.
Fantascienza, durata 55 minuti (episodio), stagione 1.