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Punto di fuga #1 – Il cinema meticcio dei Masbedo

sabato 22 Dicembre, 2018 | di Federica Fontana
Punto di fuga #1 – Il cinema meticcio dei Masbedo
Punto di fuga
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PUNTO DI FUGA – A cura di Federica Fontana
Costruire sulla terra di nessuno
Palermo, luglio 2018. Su via Maqueda il portone di Palazzo Costantino è spalancato, per la prima volta dopo decine di anni. Nell’androne, allo stadio di abbandono, è parcheggiato un vecchio furgone degli anni ’70, modello OM. Sul vano posteriore sono montati dei monitor che mostrano interviste e performance realizzate alcuni mesi prima. In quei giorni il furgone era equipaggiato come un set, completo di luci, telecamere e impianto audio, una sorta di studio itinerante, portatile. Ogni tanto, girando per la città, potevi incontrarlo in sosta da qualche parte, ed eri sicuro che lì sopra succedeva sempre qualcosa.

Eccolo ad esempio la sera del 21 aprile, fermo di fronte alla Chiesa dei Genovesi, e poi nel sito archeologico di Castello a Mare, gli stessi luoghi in cui, molti anni prima, Pasolini aveva girato i suoi Comizi d’amore. Il retro del van quel giorno era vuoto, con un microfono al centro. Chiunque capitasse di lì poteva salirci e leggere alcune delle 146 domande sulla sessualità che il regista aveva rivolto ai passanti negli anni Sessanta. Le domande, lasciate senza risposta, avevano ancora la stessa forza.mediacritica_punto_di_fuga_masbedo_290 Un mese prima, fermo sul Monte Pellegrino, lo stesso palco aveva ospitato una performance elettronica di Yuki O, che armato di casse e tastiere, aveva sonorizzato due film di De Seta di fronte a un panorama da togliere il fiato. Ai suoi piedi scorrevano le immagini dei lavoratori, strappate al tessuto narrativo della pellicola e liberate come icone universali nel tramonto palermitano. Se non eri passato di lì in tempo per vederlo, sicuramente avevi avvistato il furgone la sera del 25 maggio, a zonzo per i vicoli della Kalsa, con le scene de La Sicilia del Gattopardo proiettate sopra. Oppure a Mondello, alla riapertura dell’arena La Sirenetta. Il 20 luglio il carro era lì, con tre jazzisti e la Terra di nessuno di Baffico proiettata sullo sfondo; una performance interveniva a riempire simbolicamente le sequenze mancanti, come ricucendo una ferita.
Il van, passato alla storia come Videomobile, era un’opera del duo di video artisti milanesi Masbedo ‒ Nicolò Massazza e Iacopo Bedogni ‒ e, in sostanza, un tributo al cinema di ricerca transitato per Palermo. La commessa del resto era stata chiara: realizzare opere che avessero un legame con la città ospitante, una consuetudine per Manifesta, la Biennale europea itinerante che quest’anno, per la 12esima edizione, li aveva chiamati a partecipare. Così ecco gli omaggi a Gregoretti, Mingozzi, Wenders e Rosi, ecco Kite – L’aquilone, un’audio-performance tratta da un soggetto di Antonioni e Guerra, e una serie di interviste a tecnici, comparse e truccatori, i “nessuno” che hanno fatto la storia del cinema.
E poi un intervento semplice, potentissimo, all’interno dell’Archivio di Stato. La sala più vecchia è quella delle capriate, in città la chiamano “l’ossario” e appena ci metti piede capisci perché. Centinaia di libri in putrefazione ricoprono le pareti dal pavimento al soffitto. Esposto su uno scaffale c’è un documento, protocollo 90/6 (da qui il nome dell’opera). È il verbale della denuncia con cui i carabinieri accusano De Seta di compiere un’attività sospetta: girare un film. Nicolò e Iacopo ne hanno fatto un simbolo della condizione esistenziale dell’artista, girando un’immagine presa dai suoi appunti: un pupo gigante si agita nello spazio claustrofobico di un display che copre tutta la parete di fondo dell’edificio. Il rumore del legno quando cade sulle ginocchia riecheggia sugli scaffali pericolanti creando sinistre similitudini.
In sei mesi i Masbedo hanno dato ossigeno ad un nuovo modo di approcciarsi all’audiovisivo: non arte che si fa cinema ma cinema che si fa installazione, musica, performance; cinema che può essere smontato e rimontato, meticciato, masticato, riflettuto e salvato come serbatoio di memoria storica. I Masbedo a dirla tutta erano già famosi prima. I battenti del cinema li avevano abbattuti a spallate già quattro anni fa, alla Mostra di Venezia; oggetto del contendere un lungometraggio, a dir la verità più amato dai cinefili che dai critici d’arte, a riprova delle divisioni, incurabili, intollerabili, tra i due emisferi. Strano perché loro si erano approcciati al cinema da artisti, non da registi, portando la videoarte sul grande, unico schermo. Così è nato The Lack, un film che ha 4 momenti, come una storia multicanale, nato da una suggestione visiva sviluppata piano piano; una pellicola dove non ci sono fatti ma una sola, atterrente, pungente condizione esistenziale: quella della mancanza. La mancanza di dialoghi, di uomini e di comparse. Nel film solo donne, ciascuna alla rincorsa di qualcosa, inghiottite da una natura talmente incontaminata che ti soffoca, che leopardianamente da meravigliosa diventa terribile. Nel loro cinema come nelle loro opere l’oggetto esasperatamente estetizzato porta pulsioni di morte, tutto dev’essere distrutto, deflagrato. Come i cristalli nel Teorema dell’incompletezza o in Ionesco Suite: qualcosa di etereo e perturbante, bello finché non arrivano gli spari o una colata di cemento a ridurlo in polvere.

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