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Ossessioni e perdita di sé nel cinema del 2018

sabato 22 Dicembre, 2018 | di Edoardo Peretti
Ossessioni e perdita di sé nel cinema del 2018
2018: un anno di cinema
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Smarrimenti e follie
Partiamo da lontano, dal technicolor sperimentale, visionario e eccessivo del cinema di Michael Powell e Emeric Pressburger, e prendiamo, per esempio, il volto di Kahleen Byron trasfigurato dall’odio folle e cieco in Narciso nero, oppure il cataclisma emotivo e interiore che travolge i protagonisti di Scarpette rosse fino alla discesa negli abissi più morbosi e cupi dell’ossessione ne L’occhio che uccide del solo Powell.

Non è un riferimento casuale quello alla coppia di registi europei; la scoperta e la riscoperta del loro cinema innovativo ed eccessivo sono avvenute in occasione dell’ultimo Torino Film Festival, coincidenza temporale che però ha creato una sorta di collegamento mentale tra il passato riproposto dalla retrospettiva torinese e il presente di molti film che hanno visto la luce della sala nel 2018: il racconto cioè di un’ossessione e della perdita di sé.
Una tematica certamente non inedita nella storia del cinema come in quella dell’arte e delle narrazioni in generale che però ha assunto, espressa da un piatto di funghi o dall’allucinazione di una partita di calcetto, una centralità particolare nella stagione che si sta concludendo, accomunando film diversi tra loro e venendo raccontata da diversi punti di vista – le varie declinazioni dell’ossessione amorosa come quella nata da un disagio urbano e sociale ormai irrimediabile, quella della ricerca della verità che diventa metafora della storia o ancora l’ossessione del cinema.
Partiamo da due film apparentemente molto diversi tra loro e che in realtà raccontano le facce opposte della stessa luna, quella dell’innamoramento più ossessivo e vincolante; Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino e Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson. In entrambi c’è un’immersione totale, “pura” e profonda nell’essenza del sentimento amoroso e nelle intimità conseguentemente trasformate. Gli aspetti più vitali, trasognati e gioiosi risaltano in Guadagnino mentre quelli più cupi, morbosi e funerei dominano in Anderson. Nel primo l’ossessione dell’altro è il succo del racconto di formazione e di “coming out” per i quali la cinepresa e la sceneggiatura agiscono in qualche modo “libere” e “sgrammaticate” come se seguissero le particolari regole logiche di chi è cotto a puntino.mediacritica_ossessioni_e_perdita_di_se_nel_cinema_del_2018_290
Nel secondo la perfezione formale presenta invece l’ennesimo personaggio andersoniano la cui forza apparente nasconde in realtà la fragilità più tremolante e la più assoluta predisposizione ad annullarsi nell’altro, con il conseguente morboso e malsano ribaltamento dei rapporti di forza e potere tra i personaggi altrettanto tipico dell’autore. Queste caratteristiche contrastano con l’apparenza grandiosa e potente dei protagonisti e mettono così in crisi i tipi sociali e storici che essi rappresentano. Riflessioni e ossessioni che interessano in particolare Il petroliere e The Master e che in Il filo nascosto paiono rafforzate dall’immersione diretta e poco filtrata negli aspetti più morbosi e cupi dell’innamoramento e dell’attrazione.
L’ossessione e la perdita di sé sono punti cardinali anche della poetica di Matteo Garrone. Sono anzi l’elemento decisivo che causa lo scarto dal naturalismo di partenza e l’astrazione quasi metafisica fondamentali nel suo cinema. Dogman racconta l’ennesimo disperato ed estremo tentativo di fuga interiore che porta allo scollamento con la realtà e allo smarrimento di sé e che si rispecchia nelle atmosfere irreali e stranianti. È l’ennesima rappresentazione delle reazioni umane alle prese con contesti e situazioni in qualche modo estreme, simboleggiate in questo caso dal paesaggio urbano “brutto, sporco e cattivo”, decontestualizzato come fosse ai limiti della civiltà e della storia e astratto come un De Chirico sporcato. Il paesaggio urbano è una sorta di “Deus Ex Machina” onnipresente (si noti l’alternanza di primi piani e campi medi e lunghi) verso il quale la simbiosi dei personaggi condannati alla sospensione, all’abbruttimento e all’emarginazione pare una cosa ovvia. L’unica apparente e fallace via di fuga è quella appunto di abbandonarsi all’ossessione e arrendersi alle sue conseguenze.
Se in Dogman il paesaggio è onnipresente e lo sguardo continuamente si allarga su di esso, in Sunset di László Nemes accade il contrario. Il contesto rimane sfocato e solo suggerito sullo sfondo e la cinepresa si concentra ossessivamente sul primo piano della protagonista. Nell’immediata vigilia dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, con l’ancien regime europeo sull’orlo dell’implosione, Iris è sempre più ossessionata dalla ricerca della verità sul passato suo e famigliare. La sua discesa negli inferi dell’ossessione è parallela alla discesa nella violenza della civiltà che implode; i due aspetti sono reciprocamente causa e conseguenza e determinano, da entrambi i lati, il risveglio decisivo di un male insito nel profondo. Nemes usa così il racconto dell’ossessione per creare un potente e sconsolato apologo sul male sempre in agguato, dentro di sé e nelle pieghe della Storia, anche in questo caso con un approccio che abbandona presto il naturalismo e assume connotazioni quasi irreali e metafisiche; ideali, del resto, per raccontare la condizione di chi non riesce più ad affrontare con totale lucidità e con sufficiente distacco la realtà che lo circonda. Come nel caso di Dogman, inoltre, ci troviamo di fronte ad una vittima del contesto e della storia, per quanto in questo caso più “attiva”, cinica e consapevole.
Infine, l’ossessione cinefila degli ultimi 25 anni per eccellenza è stata quella di Terry Gilliam per Don Chisciotte e del pubblico nell’attesa di quel film sfuggente. Ossessione che ha portato a L’uomo che uccise Don Chisciotte, dove risuonano tutte le tappe e i personaggi che hanno costellato questi 25 anni di tenace inseguimento dell’obiettivo da parte dell’ex Monthy Python. Nel film come nell’inevitabile eco della sua travagliata preparazione, risuona, declinata in vario modo, l’ossessione del cinema; e ci piace concludere con questa follia, anche perché è il cinema stesso, nel suo farsi e nel suo essere visto, l’esorcizzazione e la cura decisiva.

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