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Ad occhi chiusi #2 – Anche i trailer hanno un genere?

sabato 23 Febbraio, 2019 | di Erasmo De Meo
Ad occhi chiusi #2 – Anche i trailer hanno un genere?
Ad occhi chiusi
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Non c’è il film ma già c’è il trailer
Si può distinguere il genere di un film in uscita ad occhi chiusi, solo ascoltandone il trailer? Fateci caso, in attesa in sala o navigando tra i trailer delle uscite settimanali: l’uniformità formale è impressionante, nelle immagini, ma ancor di più nel sonoro.

Era il 1988 quando un articolo seminale, a firma di Omar Calabresi, analizzava le tendenze dei trailer del tempo, confrontate con la prassi dei decenni precedenti. «Dalla forma “presentazione da circo”, che ne caratterizzava l’enfasi enunciativa, siamo oggi passati ad una “maniera” che spesso prescinde dal contenuto del prodotto futuro (o perlomeno dalla trama della finzione) e si arresta alla presentazione dei “caratteri” e delle “emozioni” principali. Ovvero: ai due elementi che possono funzionare da matrice di una narrazione potenziale» (Omar Calabresi, Film prossimi venturi. Per un approccio teorico al fenomeno trailer, in Segnocinema n.31, 1988). Il processo oggi può dirsi compiuto e anche cristallizzato in una struttura quasi irrinunciabile. I caratteri e le emozioni sono le uniche presenze e le “maniere” sono insegnate in corsi specializzati, quasi fossero ricette.

Una breve ricerca su internet può scoperchiare un vero e proprio genere, la trailer music, che affonda a piene mani nella sua sorella (o madre?), la library music: musica buona per qualsiasi scopo, prodotta con l’unico scopo di essere vendibile. Nessuna ambizione artistica, nessuna velleità linguistica: intere compagnie si occupano esclusivamente di questa musica all-purpose, musica “che funziona”, musica già nata, molte volte, ancor prima che nasca il film o il prodotto per cui verrà utilizzata. Questa scollatura non è di per sé un male – quanta musica classica scritta prima dell’invenzione stessa del cinema assolve magistralmente al suo scopo, riutilizzata e ritagliata a dovere? – ma non può non indurre a pensare che vi sia un processo di progressiva omologazione e monopolizzazione di suoni. L’imitazione tra diversi trailer e il processo quasi mimetico, di identificazione con un genere, un filone e, inevitabilmente, un pubblico target, ha standardizzato immagine e suono attorno a forme riconoscibili, che palesano il loro voler evocare, suscitare o pre-figurare forme di godimento già di per sé standardizzate.

Tentiamo l’indagine su tre tipologie di prodotto cinematografico e, dunque, di spettatorialità: il film di azione e fantascienza, il film drammatico e la commedia.

Per il primo prevale l’attesa di una fascinazione spettacolare e tecnologica di tipo immersivo e identificativo, ci si aspetta tensione, scoperta, ritmo. La soddisfazione richiesta è immediata e trasversale e per i produttori di trailer, è la più semplice da leggere e da interpretare. Non a caso è proprio qui che il sonoro è più riconoscibile: le tipologie timbriche e dinamiche sono ricorrenti, addirittura sono frequentissime le stesse librerie sonore, il materiale sonoro è ristretto. Prendiamo un esempio recente: Glass (2019) di M. Night Shyamalan. La scelta è puramente casuale, ma se è vera la mia tesi, ogni scelta casuale sarà anche una scelta esemplare. Il trailer di Glass dominato, nell’immagine, da toni scuri, alternati a sprazzi di luce, vede la compresenza di sequenze lente e statiche e di sequenze nervose costruite con un montaggio molto serrato. Nel sonoro sono presenti e dominanti proprio quelle tre componenti che io ritengo comuni a tutti i trailer di film di azione e fantascienza: i cosiddetti, in gergo, rise and hit; i pattern ritmici affidati ad archi o percussioni molto riverberate e marziali; la vocalità profonda, lenta e sentenziosa. Le sequenze più lente e scure sono associate ai suoni tenuti, di intensità crescente – per questo indicati come rise – spesso culminanti in suoni percussivi, con timbro anch’esso scuro, con una coda lunga di rilascio – indicati come hit, vero marchio di fabbrica di questo genere di sonorizzazioni – che coincidono con inquadrature significative, all’apice della tensione, o con schermate di testo. Suoni di questo tipo generano mistero, curiosità, assolvono allo stesso scopo dell’hook di apertura in un articolo di giornale. È sempre circa dopo un terzo della durata del trailer che emergono, di pari passo con l’infittirsi del montaggio, gli elementi più ritmici e fisici: per Glass ci sono un ticchettio di orologio e una sezione di archi che ne raddoppia il tempo e cresce man mano in estensione dinamica e armonica. I tre tipi vocali (facciamo riferimento al trailer italiano), quella grave in apertura, la voce femminile più pacata e acuta del medico nella parte centrale ed il ritorno del grave sul finale, mescolato alle voci folli, rabbiose e urlanti dei tre pazienti psichiatrici, sono in piena corrispondenza con l’allargarsi della dinamica sonora e visiva. I sensi dello spettatore sono quindi attratti, presi all’uncino e ampliati, soddisfatti ritmicamente ed è questo senso di ampliamento fisico e psicologico, questa eccitazione serotoninica che il trailer di azione e fantascienza induce, come ad imprimere una memoria fisica.

Differente il discorso per quanto riguarda il cinema drammatico, la posizione dello spettatore è ben diversa, le sue attese sono più intellettuali che fisiche: vuole essere colpito, stupito, stravolto, ma sotto l’effetto più di una conflittualità ideale che da un’estasi tecnologica. L’identificazione spettatore-personaggio ricercata si muove su un terreno più quotidiano e realistico, l’ambiente sonoro deve quindi ricreare uno spazio, un luogo, un contesto. Per questo motivo nei trailer di film drammatici è presente, nella maggior parte dei casi, una componente sostanziosa di suoni ambientali – passi, animali, strade, voci, rumori – unita a strumentazioni, laddove presenti, variegate e, in genere, meno elettroniche. I dialoghi sono meno enunciativi e più narrativi e colloquiali dei trailer di fantascienza. Il centro si sposta dalle sensazioni dello spettatore, del caso precedente, all’emozionalità incarnata dei personaggi sullo schermo; si indugia sui volti, sulle caratterizzazioni, il tutto teso a rendere la vicinanza spettatore-spettacolo possibile e verosimile.
Prendiamo come esempio Land (2018) di Babak Jalali, in uscita proprio questa settimana. Ad un tappeto sonoro, anche qui tenuto, ma più discreto, si uniscono i suoni delle bici, del vento, del sorseggiare degli indiani dalle lattine di birra: un suono che connota l’intera vicenda. I dialoghi sono i veri protagonisti ed è solo a metà trailer che viene introdotta una vera componente musicale, che molte volte per i trailer drammatici corrisponde ad una canzone già nota o evocativa, in questo caso folk, suonata in acustico, con una chitarra ed un’armonica. Per Tramonto (2018) invece, ai suoni ambientali, fondamentali anche nel film, si sovrappongono solamente degli archi, che però si comportano diversamente che per Glass: per i quasi due minuti di trailer sono suonate solo tre note, lunghissime, un intervallo di terza minore ascendente e uno di seconda minore discente nel finale, che non suonano particolarmente “tesi”, ma danno quella sensazione di irresolutezza e mancanza di direzione che connotano la protagonista. Il sonoro ha qui quindi una funzione più descrittiva che puramente tensiva.

Ultimo caso, la commedia. L’attrazione qui sta tutta nella giovialità, nell’assurdo, nel ribaltamento di figure sociali arcinote. Qui la componente sonora è molto meno simbolica e funzionale, ha lo stesso ruolo e le stesse caratteristiche formali e timbriche della muzak. La library music spadroneggia: motivi di facile ascolto, sonorità rassicuranti, senza ricerche strumentali, quasi esclusivamente in modo maggiore, con ritmiche sostenute e ballabili. Spesso vengono utilizzati più temi musicali, uno per ciascuna sequenza, con cui si vuole dare senso di euforia e di leggerezza, minimizzando allo stesso tempo l’attesa, la pausa e dichiarando impossibile la noia. Esempio, anche qui senza andare lontano: 10 giorni senza mamma (2019) di Alessandro Genovesi. I temi alternati sono ora disneyani, ora latin, ora teen-pop. Sono assenti suoni ambientali, la commedia del resto è il regno della chiarezza, del calcolo, del tempismo e tutto è sussidiario alla voce e al gesto. Se la musica si ferma è solo per sottolineare una posa o una battuta, prima di ripartire con carica ancora maggiore. Le voci sono vivaci, sovrapposte, esasperate, frenetiche, visitano più registri tanto da divenire parossistiche e addirittura, sul finale, la voce del protagonista è deformata da una protesi dentale che lo rende, secondo il principio comico, inadatto e fuori posto. È l’anticipo di una gag sonora, come raramente se ne vedono.

Le eccezioni a questa classificazione esistono immancabilmente, ma ciò non toglie che il grosso dei trailer si sia fossilizzato in una maniera perlopiù indifferente al contenuto, che anzi quasi ostenta la sua settorialità rimarcando confini anacronistici tra i generi e, soprattutto, immeritatamente, tra gli spettatori. Continueremo a indagare.

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