La fatica di credere che i ragazzi stanno bene
Una famiglia apparentemente “non convenzionale”, quella raccontata da Lisa Cholodenko nel suo I ragazzi stanno bene.
Quarto lavoro della regista 46enne americana, il film racconta la vita di Laser e Joni, fratellastri, entrambi concepiti tramite inseminazione artificiale. A fecondare entrambe le madri, la stessa donazione. Entrambe appunto, perché è di due mamme che si parla in questo nucleo familiare. Annette Bening è Nic, medico affermato e figura genitoriale più rigida e normativa rispetto alla sensibile e affettuosa Jules (Julianne Moore), architetto mancato alla ricerca di un rilancio lavorativo. Ruoli ben distinti e complementari quelli delle due mamme, che a modo loro riescono ad essere buoni genitori. Tutto però cambia con il compimento dei diciotto anni di Joni. Laser le chiede di contattare segretamente il donatore del seme, il cosiddetto padre biologico. Ed è proprio il transito nella loro vita di Paul (Mark Ruffalo) che richiederà la messa alla prova di quello che significa davvero “essere” una famiglia. Interessante lo scarto che il film evidenzia tra persone e ruoli, tra ciò che si è e ciò che si rappresenta. Tra l’aver messo al mondo una persona e la capacità di prendersene cura. Tuttavia anche se animata dalla contagiosa complicità di un cast che interagisce alla perfezione, progressivamente la parabola del film finisce per rivelarsi prevedibile, svelando la reale intenzione della regia. Per mostrare le ragioni della coppia omosessuale, si esibisce una figura maschile superficiale e immatura, totalmente incapace di svolgere il ruolo di genitore. Semplificazione eccessiva questa, che è forse il limite più grande del film. Oltre a ciò, nessun accenno al tema dell’inseminazione, o al fatto che Paul non venga cercato in quanto padre, ma solo in qualità di donatore. E tutto ciò per pura curiosità. In particolare poi, è la violenza con cui Nic ad un certo punto del film esclude Paul dalle loro vite a rivelare la natura estremamente convenzionale del film. E la tesi che la regista impone alla narrazione (il fatto che la dimensione biologica dell’essere genitori sia completamente distinta e subordinata alla scelta di diventarlo) risulta fortemente riduttiva rispetto alle potenzialità di questo progetto. Limite che però non ha impedito alla pellicola, girata in poco più di tre settimane e costata circa 4 milioni di dollari, di ricevere due Golden Globe (miglior commedia dell’anno e miglior interpretazione femminile per Annette Bening) e di incassare, negli Stati Uniti, 20 milioni di dollari. Eppure dubbi e incertezze rimangono. Prima fra tutte la perplessità sulla tendenza di certo cinema indipendente a percorrere sentieri già ampiamente consolidati. Ma soprattutto a permanere è la difficoltà di convincersi che in un tale contesto i ragazzi possano stare davvero bene.