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Black Death

venerdì 18 Marzo, 2011 | di Lisa Cecconi
Black Death
Inediti
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INEDITO – GRAN BRETAGNA, GERMANIA 2010

Coalition Of The Willing
“Non siamo male come pensi. Siamo peggio.” E’ questo il punto, con Black Death: niente è come sembra. E non è un caso che la sola battuta veritiera provenga dalla bocca del mercenario Swire (Emund Elliot), voltabandiera per professione, pronto all’abiura per salvare la pelle.

Nell’ultimo film di Cristopher Smith, disponibile in Italia esclusivamente in DVD, l’unica cosa certa è la Peste Nera che miete impietosa cataste di vittime. Soltanto un villaggio ne resta immune e il sospetto di stregoneria attira un manipolo di “uomini di Dio” intenzionati a svelare l’arcano. Il giovane Osmund (Eddie Redmayne), monaco novizio e guida improvvisata, non tarderà a scoprire la verità sulla missione, voluta dal vescovo per catturare un necromante da esporre al popolo come capro espiatorio. Nel percorso ostile fino al villaggio ogni certezza si rivela infondata, le aspettative puntualmente contraddette, mentre tutti, novizio compreso, nascondono almeno un secondo fine.
Dopo la satira aziendale di Severance- Tagli a personale (2006) e il cerebrale Triangle (2009), Smith torna a riflettere sul lato oscuro dell’attualità con un medieval horror tutt’altro che datato.
Nell’Inghilterra devastata dal morbo la realtà si fa imperscrutabile, i confini tra vero e falso si dissolvono nella nebbia, il dolore genera odio e la paura superstizione. A giovarne, naturalmente, è chi detiene il potere, accresciuto e garantito dalle mistificazioni. La metamorfosi di Osmund, sulle tracce dell’invasato Ulric (Sean Bean), diviene così l’emblema di un’umanità accecata che addita il nemico come il Demonio autoproclamandosi strumento di Dio.
Smith ne traduce il disorientamento attraverso uno sguardo ipertrofico, ora distorto e offuscato, ora parziale e costretto attraverso finestre o pertugi. Alla fisicità nervosa della camera a mano, riflesso emotivo dei personaggi, contrappone panoramiche di ampio respiro, testimoni impassibili di uomini piccoli come formiche,  affogati nei miasmi della pestilenza. Persino il punto di vista di Osmund, che crediamo di adottare nell’incipit, si  dimostra doppiamente fallace, non soltanto per le soggettive sempre più passibili di allucinazione, ma anche rispetto al ruolo di narratore che, nel finale del film, scopriamo appartenere a Wolfstan (John Lynch).
La deriva epistemica va di pari passo con quella morale e, in entrambi i casi, non risparmia nessuno: se la necromanzia è per il vescovo mero pretesto di asservimento e conquista, la leader pagana la rivendica per  millantare un potere inesistente.
Le assonanze con le guerre contemporanee raggiungono infine l’apice nell’immagine di Ulric che si immola invocando il cielo con l’abnegazione degna di un kamikaze. Ma non c’è risposta alla sua invocazione, come non ce n’è per le preghiere di Osmund. Non c’è grazia per chi uccide, né occasione di redenzione: alla fine resta solo la follia e a farne le spese sono gli innocenti. Ormai deposta ogni ironia Smith osserva il mondo con un disincanto amaro, con un film dove, parafrasando Ulric, non c’è traccia di eroi, ma neanche di Dio.

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