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Conversazione con Marco Bellocchio

sabato 19 Marzo, 2011 | di Roy Menarini
Conversazione con Marco Bellocchio
Marco Bellocchio
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Su Sorelle mai
Di tutto si può accusare Bellocchio, salvo di ripetersi. O meglio, ci sono elementi che ritornano ossessivamente – dal tema della famiglia a I pugni in tasca – ma di volta in volta con operazioni cinematografiche imprevedibili.

Sorelle Mai mescola finzione e autobiografia, low budget e lessico famigliare, inquietudini psicanalitiche e cinema underground, con una libertà stilistica che – pur tradendo una qualche forma di necessaria fragilità (il film è frutto dei laboratori didattici di Fare Cinema a Bobbio) – si trasforma in rigenerazione formale. Abbiamo incontrato Bellocchio a Bologna, il 18 marzo, per una lunga e rilassata conversazione, seduti sui divani dell’Hotel Europa, dove il regista alloggia per alcuni giorni in vista della tournée di presentazione del film nella sua Emilia Romagna. Bellocchio talvolta appare riservato e un po’ scostante – lo dice chi ha già avuto modo di dialogare con lui in pubblico in più occasioni – ma questa volta, nella quale il pubblico non c’è, i filtri vengono meno e la facondia aumenta. Impossibile riportare per intero il lungo dialogo, cerchiamo di toccare i punti principali.

Al di fuori delle sue dichiarazioni, mi sembra che Sorelle Mai risenta ancora una volta di un aspetto psicologico, direi anzi psicanalitico, rispetto ai personaggi. Il luogo d’origine, Bobbio, una famiglia impegnativa, il ritorno come forma ossessiva di legame…

È vero, anche se non voglio che il film venga considerato un documentario sulla mia famiglia o una forma trasparente di autobiografia. Tutto il film è sceneggiato, anche se talvolta ho voluto, con i miei allievi, catturare il momentaneo, lasciare vibrare ciò che si presentava davanti alla macchina da presa. La famiglia qui è ovviamente anche una prigione, anche se ben differente da prima, quando – quarant’anni fa – ero pieno di rancore e magari incolpavo chi mi aveva cresciuto con una rabbia poco contenibile. Il fatto che io ora sia più sereno, che io stesso metta in scena Elena, mia figlia (cui affido il ruolo del personaggio che meno si fa toccare dalle inquietudini che serpeggiano), non significa però totale riconciliazione o che io abbia cambiato idea. Semplicemente, non penso che nella istituzione famigliare in se stessa si nasconda il “negativo”, cosa che invece traspariva in precedenza. Ma i tempi poi sono cambiati, nella società e nei nuclei parentali.

Questo rapporto con il passato sembra sempre anche un rapporto con I pugni in tasca. Un tempo quel film era divenuto una gabbia, come lei stesso ammetteva, oggi – complice anche la trasposizione teatrale e gli inserti presenti in Sorelle Mai – sembra una sorta di luogo originario anch’esso.

Sorelle-Mai-bellocchio

Lo ammetto, c’è stato un lungo periodo in cui mi sono sentito “inchiodato” a quel film, e anche il pubblico, con la complicità della critica, riconosceva subito il binomio Bellocchio-Pugni in tasca. Giocoforza ci sono tornato più volte, in maniera molto dura con Salto nel vuoto, poi ancora in modo meno soddisfacente con Gli occhi, la bocca, poi forse il vero cambiamento è stato con L’ora di religione dove il protagonista abbraccia il fratello omicida, anche se poi se ne distacca presto. Qui in Sorelle Mai gli inserti obbediscono più che altro a una suggestione, non ci ho pensato troppo su, c’era assonanza di luoghi, di gesti, di momenti. L’ho fatto e basta. Ma tutto in fondo, come in L’ora di religione ruota intorno alla madre. La santificazione della madre. Anzi, pochi sanno che quel film è nato da una battuta di Gianni Schicchi pronunciata in quest’ultima pellicola (una scena girata però nel 1999): “La mamma è una santa”. Questo è il nodo psicologico, questo è il simbolo forse nascosto. Per tutti questi motivi non sento più “rabbia verso le origini”, ma mi ci confronto. Mi sono carissimi i versi di Rimbaud: Oisive jeunesse à tout asservie par délicatesse j’ai perdu ma vie.

Sono versi che anche io amo molto, e che credo abbiano parlato a intere generazioni. E, a proposito di poesia – dunque di “lirica” – nel film c’è ancora una volta il ruolo dell’opera e del melodramma. Il suo legame con questa forma espressiva è dovuto al tema dell’identità culturale che ci riguarda?

Forse, ma certo non nel senso retorico del termine. L’identità culturale è qualcosa di sfuggente. Basti pensare alle celebrazioni di questi giorni. Durante il Centenario, nel 1961, moltissimi uomini di sinistra ne erano respinti perché lo sventolio del tricolore e la retorica patriottica li riportavano allo spettro del fascismo e del nazionalismo. Oggi è tutto diverso, parrebbe una “cosa di sinistra”, anche se di una sinistra incerta sul da farsi. Mi interessa da sempre il rapporto tra lirica e melodramma. Non lo faccio certo per educare le nuove generazioni, per cui l’espressione lirica è qualcosa di remoto. La verità è che io sono toccato profondamente, profondissimamente dalla sensibilità musicale, e già questa sarebbe una riposta. Tuttavia, nella mia filmografia, ho usato queste musiche in maniera spesso diversa. La Traviata in I pugni in tasca ha il sapore della provocazione, intesa però nel senso di accostare le convulsioni del protagonista a una esperienza estetica in qualche modo assoluta, in un contrappunto dove trova posto assai più il tragico che non il dileggio. Invece in La Cina è vicina il Don Carlos appare decisamente in funzione grottesca (viene canticchiato da Glauco Mauri in bagno!). Tutt’altra questione, invece, in Vincere, dove la prima parte si ispira alle avanguardie che avevano punteggiato quel periodo, in particolare il futurismo, mentre nella seconda prevale la forma melodrammatica, che ho cercato di rispettare nei suoi passaggi interiori più che formali. Quando, del resto, ho deciso di dirigere a teatro il Rigoletto, non l’ho certo fatto per metterci la firma, o per un’operazione superficiale, ma con estremo rispetto, e, spero, serietà.

Vincere a mio parere è un film straordinario, che forse è stato più elogiato che compreso o seriamente analizzato. È un film che ci dice, forse insieme a Il divo di Sorrentino e Noi credevamo di Martone, che l’unico modo di affrontare l’identità (e mi perdoni se torno sempre su questo tema) è grazie a forme di trasfigurazione molto ardite.

Perfettamente d’accordo. Martone è un altro regista che ha usato la lirica nella direzione di un coinvolgimento non esornativo, e ho sentito quel film molto vicino alla mia sensibilità. E, certo, se devo parlare di registi che apprezzo, devo citare Sorrentino – il suo film ha davvero stravolto molte convenzioni. Poi vorrei citare anche Pietro Marcello, Michelangelo Frammartino, e – anche se il suo cinema è agli antipodi di quel che farei io – Guadagnino, che almeno con Io sono l’amore ha cercato di trovare strade nuove. Ma, se ha notato, si tratta di film – compreso il mio – che vengono assai meglio accolti all’estero che qui da noi. La “violenza” della cronaca, del quotidiano, del mimetismo nel reale, è soffocante. Qui non ci si accorge delle trasfigurazioni necessarie a parlare di noi, e il discorso sull’identità appare più chiaro a chi ci guarda da fuori. La commedia riconciliatoria di questi anni, senza un minimo sprazzo di riflessione sul linguaggio, ne è ulteriore dimostrazione.

In Vincere la sequenza chiave, secondo me, è quella in cui il piccolo Benito, per accontentare i compagni di corso, si mette a fare l’imitazione del padre. È un momento nel quale tutti i raddoppiamenti del film trovano un punto di “incandescenza”, il tragico e la parodia si fondono.

Esatto, Benito jr. diventa parodia e tragedia del padre. Questa storia era nelle carte, cioè sappiamo che veramente lui era costretto dai compagni a queste imitazioni. Il che è terribile, perché emerge da tutti i documenti che il giovane Benito amava il padre di un amore smisurato, un amore del tutto non corrisposto. Quella imitazione diventa riavvicinamento vano, disperato, persino con esiti farseschi, e così il discorso sul “ridicolo” del potere assume connotati contraddittori, molto dolorosi.

E il film sul potere che ha annunciato e che, se ho ben capito, non trova finanziamenti?

Quella notizia si presta a troppe strumentalizzazioni. Sia chiaro, è vero che ho trovato le porte chiuse e che il progetto è stato rifiutato. Però è anche vero che, a questo punto, io per primo mi sono reso conto che il progetto va rivisto, ampliato, e, come dicevo, trasfigurato. Il potere in Italia ogni giorno muta forma, offre nuove rappresentazioni di sé, la cronaca emerge e stupisce di attimo in attimo. E invece, come ho spiegato, io faccio un altro cinema. Per parlare di potere oggi in Italia devi trasformarlo fino a renderlo irriconoscibile, per poi mostrarlo per quello che è. Devo lavorarci ancora molto.

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