Nel nome del padre
Ci sono vite che durano oltre. Perché lasciano impronte. Per l’eco e la scia che fanno di sé.
Quella di Terzani ha disseminato ovunque le tracce inconfondibili del proprio avanzare.
A volte sono marcate e riconoscibili, lungo strade battute, altre volte le si scova quasi per caso, nel folto di sentieri insospettabili, dove mai le si penserebbe. Ma qualunque sia il supporto, dai libri a YouTube, non c’è dubbio che siano le sue. Che sia Tiziano, “l’anam”, che le ha lasciate.
Di quest’uomo inarrestabile – giornalista, scrittore, esploratore infaticabile dell’animo umano – La fine è il mio inizio ripercorre le tappe, come già l’omonimo libro, pubblicato postumo dal figlio Folco. E’ un testamento morale, ancor prima che spirituale, che unisce racconto e riconciliazione, regalo estremo e accorato ricordo.
Non era impresa facile riportare il dialogo fluviale e densissimo, passato alla pagina da un registratore e, infine, al grande schermo, con l’immancabile supervisione di Folco Terzani. D’altra parte il film di Jo Baier sembrava vantare tutti i numeri della riuscita, dalla qualità del cast (Bruno Ganz, Elio Germano) alla coproduzione italo-tedesca, così vicina alla sensibilità del personaggio che fu a lungo corrispondente per Der Spiegel. Dispiace, allora, l’esito mancato.
Costretto nelle maglie di un copione ingombrante, che del libro traspone interi brani, Bruno Ganz, pur eccellente declamatore per novantotto minuti, non restituisce Terzani neanche per un istante. La mimesi attenta della gestualità, l’identità dell’abito e dei concetti non fanno che amplificare l’effetto disturbante di una somiglianza prettamente esteriore, tanto studiata e inseguita quanto inevitabilmente innaturale. Del vero Terzani manca la vitalità irriducibile, la curiosità estatica del mondo, l’entusiasmo sempre percepibile appena sotto la malattia, l’eccitazione bambina di chi ha vissuto un’avventura degna di essere raccontata. Il Terzani di Ganz è saputo e cerebrale, amaro al punto da sfiorare l’astio e, dunque, lontano dal senso profondo delle sue stesse parole.
La simbologia elementare (il cerchio dipinto, la fonte cui si abbevera Folco) si accompagna al dubbio gusto del clichè nell’evocare il rapporto quasi francescano con la natura, mentre nel confronto tra uomo e montagna, nel padre spiato e nei silenzi ricolmi di note si apprezzano probabilmente i momenti migliori del film. Oltre, beninteso, all’intenzione che precede il progetto poiché, a dispetto del singolo risultato, ci sono vite che durano oltre perché lasciano impronte.
Per l’eco e la scia che fanno di sé.