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In questo numero

Solitary Man

lunedì 6 Giugno, 2011 | di Eleonora Degrassi
Solitary Man
Inediti
0
Voto autore:

DVD – USA 2009

Non esiste un lifting della vita
“Non chiamarmi papà e tu, non chiamarmi nonno”;  un uomo di mezza età, brizzolato, segnato dagli anni, ex moglie, figlia, nipote.  Molte amanti, più o meno giovani.

Ben/Michael Douglas è solo un uomo solitario. Questo è il film di Brian Koppelman e David Levien, Solitary man, prodotto (tra i nomi spicca quello di Soderbergh) nel 2009, e, nonostante il cast d’eccezione (Douglas, Sarandon, De Vito) e la storia, molto hollywoodiana, trita e ritrita, arriva in Italia direttamente in dvd, nel 2010. Ben, magnate del commercio automobilistico, è un uomo in crisi. È andato in bancarotta, si è separato dalla moglie Nancy/Sarandon e fa il “non-padre” e il “non-nonno” a tempo perso. I registi hanno tutte le carte in mano e una ad una le calano: donnine con cui dividere il letto; amplessi per sentirsi “pulsanti e diversi” grazie a come “il corpo di una giovane risponde” al tocco di mani maschili più esperte; banche, “colleghi” di lavoro, amici degli amici, satelliti, che ruotano intorno e spariscono a poco a poco. Sappiamo il motivo del comportamento del protagonista fin dall’inizio: qualcosa non va nell’elettrocardiogramma. E Ben allora fugge, fugge gli ospedali, i medici, la “serietà” della vita;  è un uomo alla deriva, ma quel volto, disperato, contratto per la paura si stempera, non viene “scorticato”, “tagliato a pezzi” dalla macchina da presa, lo vediamo camminare “spavaldo”, vestito di nero, occhiali, sulle note di Solitary man di Neil Daimond, voltarsi indietro per ammirare qualsiasi donna. Il personaggio è come una scheggia impazzita alla ricerca di soldi, sesso, gioventù ed appare smarrito quando si rende conto che nulla si può ricostruire, non esiste un lifting della vita. Si può fingere che tutto vada bene, ma ad un certo punto il conto arriva. Il nostro ci fa credere di essere contento così, di “bastarsi” da solo, di non aver bisogno degli occhi ammirati, “innamorati” del nipote e dell’amore della figlia, e alla domanda:  “chiedimi se ne è valsa la pena”, la risposta è sempre sì, “ne è valsa la pena”.  Allo stremo delle forze, disperato, per il lavoro e il danaro perduti, chiede aiuto a un vecchio amico/DeVito, gestore di una tavola calda, che gli sta vicino e che gli dà un’occupazione.  Fa amicizia con uno studente universitario, Daniel/Jesse Eisenberg, che gli ricorda com’è essere giovani, a cui dà consigli:  “un giorno avrai la mia età,vuoi rimpiangere tutta la vita una serata come questa?”.  Anche con il grembiule si sente un “dio pagano” – o finge di sentirsi tale – , sente gli ormoni in subbuglio come un adolescente alle prime armi – ma soffre vedendo quella panchina piena di ricordi, di discorsi “intrecciati” con la ex moglie – , fa il gradasso e l’arrogante, pensando che tutto gli sia dovuto, sembra non avere né moralità, né rispetto – squallido è il tentativo di abbordaggio della “qualcosa di più di un’amica” di Daniel.  Non è più l’uomo di successo, affascinante e piacente, è solo un “potrebbe essere mio padre”, “quello del bar”;  e quel “dio pagano” diventa patetico in un canto del cigno penoso e lamentoso quando ubriaco e disperato abbandona la festa universitaria a cui è stato invitato.
La pellicola racconta il dramma senza mai andare nel profondo – nonostante l’interpretazione magistrale di Douglas, aiutata forse dal vissuto personale dell’attore, malato di sesso e colpito da un tumore – non sviscera né il crollo emotivo dell’andropausa – che viene esemplificato dalle varie scene più o meno allusive di sesso – , né il panico dell’uomo di fronte ad una possibile patologia cardiaca. Il film è composto come una partitura musicale, un alternarsi di duetti e assoli attraverso i quali però non si arriva ad una sinfonia ma a un’operetta a volte stonata sulle cui note Ben si evolve, si modifica e siamo di nuovo lì, su quella panchina, su cui non è più solo, accanto a lui c’è Nancy, l’unica cosa vera della sua esistenza, che gli dà la possibilità di scegliere, di non essere “posseduto” dalle cose ma “possederle” e ci ritorna in mente quel “I’ll be what I am, A solitary man”…o forse no.

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