F for freaks
Ogni supereroe, in fondo, è un freak: Batman è un tizio matto che si traveste da pipistrello, Spiderman il frutto di un incidente genetico che spara ragnatele dai polsi, e così via.
Negli X Men, però, questa consapevolezza è dolorosa, inevitabile, ineludibile; sarà perché, invece di essere idolatrati, dagli esseri umani sono temuti e disprezzati. E’ questa caratteristica a differenziare questa saga Marvel dalle altre: i veri cattivi sono le persone “normali”; in definitiva, noi spettatori. Omosessuali, disabili, migranti: non c’è “categoria della diversità” di cui i mutanti non riescano a farsi metafora, costringendo il pubblico ad interrogarsi sulla realtà discriminatoria che lo circonda.
Con X-Men. L’inizio, il regista Matthew Vaughn (già dietro la macchina da presa di Stardust e Kick-Ass) ci porta dove tutto è cominciato: negli anni ’60, in piena Guerra Fredda, Charles Xavier e Erik Lansherr, i futuri Professor X e Magneto, si incontrano e cominciano a reclutare, con l’aiuto della CIA, altri giovani mutanti. A livello di racconto, X-Men. L’inizio è una goduria per gli appassionati della serie, che finalmente possono vedere l’antica amicizia tra Charles ed Erik, tanto evocata negli altri episodi, e assistere alla nascita della Scuola del Professor X, di Cerebro, di Bestia. Il film risulta godibilissimo anche per i neofiti, forte di una vicenda ben congegnata che diverte e cattura, dotata di ritmo, di effetti speciali e esente da tempi morti. Il massimo, per un film di supereroi.
Peccato che gli X Men non siano supereroi come tutti gli altri. L’arco narrativo di Erik – sfuggito ai campi di sterminio nazisti e molto più umano di quanto lui stesso vorrebbe nella sua insaziabile sete di vendetta – è indubbiamente uno degli aspetti più riusciti del film, ma la mancanza di Magneto si sente, eccome. Il villain di quest’episodio, Sebastian Shaw, ricorda un po’ troppo gli avversari di James Bond determinati a dominare il mondo. E’ vero che il film di Vaughn si rifà nello stile al genere spionistico anni ’60, ma, per quanto il tentativo sia apprezzabile, il risultato finisce per regalare scenari troppo colorati e solari ad una serie che aveva, nella cupezza di base, uno dei suoi punti di forza. E pure il conflitto interiore di un’adolescente Raven/Mystica, incapace di accettare la propria natura, è più superficiale di quanto si vorrebbe.
A una lettura approfondita, i quesiti etici e morali emergono: i mutanti “buoni”, per esempio, sono quelli meno riconoscibili come tali (ad eccezione di Bestia), quelli per cui l’integrazione è più facile. E c’è poi il dilemma che Erik pone a Charles e che prefigura come ineluttabile il conflitto umani/mutanti. Purtroppo gli spunti di riflessione restano solo accennati, tra la frenesia degli eventi e alcuni personaggi (tutti quelli umani) troppo macchiettistici, facendo di X-Men. L’inizio uno fra i migliori cinecomic degli ultimi anni, ma con una punta di delusione sospesa.