La banalità del male: le belle e la bestia
“Le vittime sono tutte bellissime, giovani, straniere tutte, (…) come nella maggior parte di questi casi i sospettati sono assuefatti al rituale dell’uccisione, ne sono estasiati”.
Un taxi bianco sfreccia per le strade di Torino alla ricerca delle sue prede. Lidia (Emmanuelle Seigner) chiede aiuto all’ispettore italiano Enzo Avolfi (Adrien Brody) per trovare la sorella Celyn (Elsa Pataky), scomparsa durante la notte. Questo è Giallo/Argento, l’ultimo lavoro di Dario Argento, datato 2009. Il film è stato distribuito solo ora nei cinema (dopo essere già stato pubblicato in dvd), forse anche per gli ultimi flop del regista, Il Cartaio del 2003 (2.077.000 euro d’incasso), La terza madre del 2007 (2.926.000 euro). Da dove incominciare; prima di tutto dai personaggi. Lidia/Seigner dovrebbe essere spaventata o almeno così ce la racconta; ma la sua interpretazione “vive” più di elementi somatici, cioè un volto segnato, una bocca spalancata, occhi da ipertiroidea perenne, una pettinatura un po’arruffata, che di un “vero sentimento”; e lo spettatore non si libera attraverso una catarsi bensì si rende conto di assistere a uno “spettacolo” per la stucchevolezza dell’interpretazione. Enzo/Brody, premio Oscar come attore protagonista per Il pianista, film del 2003, qui sembra aver perso la stoffa; se l’intento era personificare un Enzo, già sulla carta, fragile e inconsistente, ce l’ha fatta. Si dice che un bravo attore dovrebbe essere in grado di dar spessore a un personaggio debole dal punto di vista “sceneggiatoriale”, ma qui il nostro non lo fa, anzi sembra fagocitato dalla mancanza di personalità dell’ispettore. Celyn/Pataky dà l’impressione di essere il personaggio più riuscito in questo mare di vacuità, ma era facile. Bella e sensuale sempre, anche senza un dito, ha forza e carattere. Sa dove colpire il suo mostruoso carnefice (interpretato da Adrien Brody, truccato per l’occasione; ma viene accreditato come attore Byron Deidra, anagramma del vero nome di Brody) e lo definisce – anche qui l’ingenuità discrepante del maestro del brivido – , guarda caso, Giallo, nella stessa maniera in cui lo schernivano i compagni della sua terribile infanzia. Fin dall’inizio sappiamo chi è il killer seriale, vediamo nello specchietto retrovisore i suoi occhi vitrei, la sua bandana rossa, ne vediamo l’ombra, ne sentiamo la voce, infine ne conosciamo il soprannome e lo vediamo; ovvio è una scelta registica ma questo toglie allo spettatore il gusto di divenire lui stesso detective. Il tutto si concentra sul corpo: sulla dicotomia bello/brutto, dalle passerelle glamour al mattatoio/laboratorio, dal Corpo/“statua” al Corpo/mostro e anche qui tutto è scontato: il carnefice “vomita” tutto il suo rancore, la sua rabbia contro l’Umanità – colpevole di averlo emarginato per la sua bruttezza e per la sua malattia, (l’itterizia, da qui il soprannome) – sfregiando belle donne per le quali tutte le porte sono aperte. Da questo dualismo ne deriva un altro, quello buono/cattivo; da un inizio comune, entrambi sono dei “toccati da dio” (l’uno ha vissuto in un orfanotrofio, l’altro ha vendicato sua madre uccidendone l’assassino), le strade divergono ed Enzo diventa ispettore, Giallo criminale. Nel racconto della fanciullezza dei suoi fantocci Argento ricorre a flash back inutili, che sembrano essere più un auto-attestazione di bravura che un’esigenza narrativa. L’horror dovrebbe rappresentare le paure collettive, quelle più recondite e a fatica svelate; qui invece tutto è un po’ sbiadito. Il corpo sotto i colpi inferti dal serial killer fa rumore (il martello che colpisce il capo di una delle povere malcapitate, le cesoie che tagliano labbra e dita), ma in questo caso non genera raccapriccio, spavento, forse perché c’è un unico, grande problema in questo film, quello della suspence; mancando quest’ultima tutto diventa piatto, ovvio, addirittura “da sbadiglio” e per un horror è la cosa peggiore che possa accadere.