68a Mostra del Cinema di Venezia, 31 agosto-10 settembre 2011
Un sacrificio cinematografico
Fino a dove può arrivare l’amore per il cinema? Chi è regista, ma anche chi il cinema lo produce soltanto a parole o a emozioni mescolando la cinefilia con la vita, troverà in Cut, presentato alla Mostra del Cinema nella sezione Orizzonti, qualcosa di più che una confessione, o un’emozionante affinità.
Cut è un film che appartiene a chiunque creda che il cinema abbia ancora un potere spirituale, che sia un’arte popolare o una ricerca interiore in costante evoluzione, che sia un luogo dove le immagini raccontano ciò che è ordinario o straordinario con il respiro di una rappresentazione, di una fantasia o di un documentario. Chi ancora crede a questo potere, e di questo potere non può fare a meno, allora crederà anche alla passione che anima il film di Naderi: una passione che nasce dalle visioni che cambiano la vita, e poi diventa una necessità di agire che spinge a creare i propri film.
Cut crede a questa passione a tal punto che ne fa l’essenza del film: Shuji è un regista che non riesce a lavorare perché non trova finanziamenti alle storie che vorrebbe girare, eppure si dedica esclusivamente al cinema organizzando cineforum sul tetto di un grattacielo, e slanciandosi disperato e pieno di reverenza sulle tombe di Kurosawa, Ozu e Mizoguchi. Shuji è il riflesso del cinema contemporaneo, sprovvisto di mezzi e ridotto a un’impotenza che lo riduce a non esprimersi e a vanificare le sue ambizioni: a un regista del presente non resta che contemplare continuamente i film che non farà, e vagare a vuoto tra i fantasmi di una storia del cinema che sta scomparendo. Per questo Shuji si rifugia nel suo appartamento-cineteca, circondato dalle foto dei grandi registi e dalle pellicole dei capolavori che il presente sta cominciando a ignorare, o di cui non si chiede l’esistenza. Ma la passione per il cinema muterà volto quando Shuji scoprirà che a causa dei suoi film il fratello-strozzino è stato ucciso dalla Yakuza per mancato pagamento: i debiti che aveva contratto per produrre le ambizioni di celluloide di Shuji ora dovranno essere estinti dal regista in due settimane, pena la morte. Passione per il cinema e lotta per la vita finiscono dunque per coincidere, perché questa passione che anima Shuji per sopravvivere e per far sopravvivere attraverso la propria salvezza anche il cinema che ama, diventa un’autentica Passione laica e cinematografica, una delle più pure mai filmate. Per lui non è importante solo risanare un debito, non è nemmeno importante sopravvivere come uomo: l’essenza del suo agire, che consiste nel farsi picchiare a pagamento fino al conseguimento del denaro necessario, è, e deve essere, una promessa verso il fratello morto per il suo cinema, è un momento d’onore per non perdere la dignità di regista, ed è un orgogliosa sfida che il cinema deve vincere se non vuole essere assorbito da chi lo concepisce soltanto come fonte di reddito.
Cut è una Passione sviluppata agli estremi del dolore fisico, una sfida alla resistenza visiva e morale dello spettatore, in cui il cinema può sopravvivere soltanto nel sangue e nella lotta, germogliando nel sacrificio artistico più sofferto e lacerato. In quest’idea di opera d’arte come risultato di una lotta, ma che nella fede incondizionata verso il cinema cerca l’unica nobiltà che sembra restargli, si può ridurre tanta adesione e tanto amore a una violenza esagerata generata dalla provocazione? No. Al contrario, Cut ha tanta emotività e tanta ansia di guardare a ciò che è stato il cinema proprio perché si rende conto che il presente non basta per costruire un film-manifesto o un’opera omnia intorno alla domanda “che cos’è cinema?”: il finale di Sentieri selvaggi, la pietà di La strada, il martirio silenzioso di Mouchette, una classifica dei cento migliori film della storia proprio nel momento più tragico e sublime di un’altra storia, quella della propria vita, tutto questo repertorio di scene amate e piaceri cinefili interviene e si sovrappone a ciò che Naderi ha creato per creare a sua volta. Come se suoni e immagini del passato potessero completare ciò che esprime o non riesce a esprimere il presente; come se al presente non restasse che proseguire attraverso il passato e dirgli un immenso grazie per trovare un altro inizio, un proprio inizio. Soltanto fondendo ciò che il cinema ha potuto essere e ciò che può provare ancora ad essere, con un sacrificio così umile come quello imposto da Cut, si può provare una ricompensa e un appagamento tanto grandi: si può provare a girare un nuovo ciak che ricorda tutte le stagioni del cinema. Anche quelle che devono ancora venire.