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Boxing Gym

giovedì 22 Settembre, 2011 | di Matteo Quadrini
Boxing Gym
Inediti
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INEDITO, USA 2010

La palestra e il documentario
Neonati, bambini, donne, etnie diversissime che si conoscono, pugili che non saliranno mai di categoria, pugili che si convincono di sognare il titolo, pugili che stanno per concludere i loro ultimi incontri, sparring partner che sono lieti di farsi picchiare per sentirsi parte della boxe, allenatori che si vogliono rendere ancora utili, anziani.

La palestra è il mondo, o forse solo un mondo, straordinario e ordinario, almeno per come la intende Frederick Wiseman.
Palestra e documentario delineati secondo l’abitudine cinematografica del regista: si filma giorni, settimane, a volte mesi, poi il montaggio riduce le centinaia di ore del girato a una sintesi di tre-quattro ore. Una sintesi appunto, che per Wiseman significa un tentativo di promemoria per riflettere esclusivamente in termini di immagini e rumori sull’esperienza conclusa. Per lo spettatore invece non è una sintesi, ma un luogo di analisi in cui perdersi, ritrovarsi o semplicemente confrontarsi, senza alcuna facilitazione drammatica del regista e senza alcun ausilio che non sia il proprio vissuto personale o la percezione con cui guardare il film.

Boxing Gym (in onda su Rai3 – “Fuori orario. Cose (mai) viste”, martedì 13 settembre), come tutti gli altri film di Wiseman, pone una condizione di fronte alla quale ognuno deve rispondere con la propria decisione: si può valutare come film a sé, o deve essere considerato soltanto un film non autonomo, un altro ritratto che s’inserisce nel processo artistico potenzialmente infinito a cui Wiseman ha dedicato tutta la vita? Più che documentari (se mai è possibile dare con questo termine una definizione a un modo di fare cinema), i film di Wiseman sono “lavori in corso” mostrati con le forme del documentario, oggetti o più semplicemente tracce con cui Wiseman tenta di dare una struttura, un senso al materiale raccolto. “Lavori in corso” perché il cinema di Wiseman non sa (e forse mai saprà) definirsi: film dopo film, Wiseman prova costantemente a cercare una definizione, uno sguardo definitivo con cui guardare l’uomo e i suoi luoghi, ma ecco il film successivo e di nuovo la definizione precedente non basta, e si ricomincia da un inedito punto di osservazione (che di solito è un’attività diversa, ma può anche essere la stessa attività filmata in un tempo diverso, anni dopo, o in un altro luogo). Il suo cinema ha il destino di un’operazione seriale che si amplia e si rinnova in continuazione, l’operazione documentaria più maestosa dai tempi dei Lumière, di quegli stessi Lumière di cui Wiseman sembra il prosecutore più estremo ma anche il vertice ideale (nella durata e nel rigore che non prevede alcuna finzione). Un cinema seriale che comunica soltanto attraverso i luoghi, filmandoli con o senza l’uomo, che osserva l’uomo a partire dalla relazione quotidiana che instaura da solo o come pluralità con il luogo e con i non luoghi. Un cinema, innanzitutto, alla ricerca dell’elemento umano del luogo.
In questo cinema seriale, Boxing Gym è soltanto un percorso intermedio. Intermedio per la sua inconsueta breve durata (Wiseman ha concentrato la durata a un’ora e mezza) e intermedio perché si colloca come ideale secondo elemento di una trilogia sul corpo umano in movimento che ha raggiunto il suo apice con inizialmente La Danse e infine con Crazy horse, entrambi sulla danza. Mentre in questi due film Wiseman sembra indagare addirittura il senso dello sguardo dell’uomo (provando a superare i confini oggettivi del documentare, cercando di rispondere alle esigenze del guardare o di ciò che si guarda) e sull’uomo (le sue parti sensuali, le pure evoluzioni del movimento), Boxing Gym è meno intraprendente e meno risolto ma più sereno. Sembra limitarsi ad essere un documento più che un documentario, non ha l’urgenza di sollevare lo sguardo e le proprie domande ad altezze intraprendenti, come se fosse soprattutto un tentativo di ambientarsi nelle molteplicità di eventi e persone che scandiscono la palestra. Tutto è presentato, brevemente, non cercato o indugiato, e nemmeno si cerca il meraviglioso o l’insolito. Il meraviglioso emerge imprevisto, ma dalle parole, per cui va ascoltato: le chiacchiere e gli sfoghi in una palestra sono impensabili monologhi per ciascuno, ciascuno con la sua storia di vita o con la sia opinione sui problemi (sociali, di coppia, di lavoro, di atletica, ecc.). Quanto sono naturali e quanto sono attori? Eppure, tutti insieme, formano un’ideale sceneggiatura perfetta, un’antologia popolare composta di parole, che fa della palestra un microcosmo, ma anche un piccolo raccoglitore universale.

Grazie a tanta polifonia, Boxing Gym riesce ad essere uno dei film in cui Wiseman si è avvicinato di più a mostrare il quotidiano, attraverso una ritualità di esercizi fisici che si ripetono e vengono resi momenti unici dalla galleria inesauribile di “personaggi” che frequentano (ma verrebbe da dire “creano”) la palestra. Niente di magistrale, se non l’espansività o la mitezza di chi è inquadrato, se non la naturalezza con cui Wiseman insegue la naturalezza della vita che scorre nella palestra e nella boxe, senza pretendere altro dalla macchina da presa. Ed è già molto per una traccia.

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