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Lo zio di Brooklyn

lunedì 3 Ottobre, 2011 | di Edoardo Peretti
Lo zio di Brooklyn
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Lo zio di Brooklyn è tornato
Il 27 settembre è uscita, edita dalla Filmauro, la versione DVD di uno dei film più discussi, “maledetti” e boicottati degli ultimi vent’anni del cinema italiano: Lo zio di Brooklyn di Franco Maresco e Daniele Ciprì.

Per i non pochi fan dell’opera, l’uscita sul mercato home-video è il premio di una lunga attesa, in cui il film, come ha raccontato Maresco prima della proiezione all’ultimo festival di Locarno, è stato reso praticamente invisibile da Aurelio De Laurentiis, mortalmente offeso per lo sketch Cinico Aurelio in cui veniva preso di mira: con il dente avvelenato, il produttore ha negato i diritti per la distribuzione home video, e limitato al massimo le visioni televisive. Ci è voluta una petizione on-line per convincere il magnate, oltre al tempo che addolcisce il rancore e agli sforzi mirati ormai alla conquista dell’Italia calcistica, a concedere la possibilità che il film dei due amici siciliani possa finalmente entrare negli scaffali delle videoteche italiane.
Aldilà dei retroscena e delle ripicche, che effetto fa rivedere nel 2011 Lo zio di Brooklyn e l’apocalisse della società siciliana/italiana raccontato? È probabilmente sbagliato, ma è inevitabile che, almeno per un attimo, nella testa dello spettatore di oggi rimbombino gli echi delle cronache politiche degli ultimi tempi, della cosiddetta “mignottocrazia” e dei resoconti che paiono presi dai film degli anni settanta con Edwige Fenech. Questo perché nel film il sesso, così come altri elementi “ edonistici” come il cibo, sono svuotati di ogni retrogusto di piacere, di sentimento e di senso che vada oltre l’immediata meccanicità e la pura animalità. Svuotati di qualsiasi sovrastruttura, cibo e sesso vengono ripetuti senza limiti in quello che diventa un processo autodistruttivo, come dimostra, per esempio, il fatto che più di un personaggio muoia mangiando. Diventano così elementi dominanti ed emblematici del deserto culturale e morale messo in scena, caratterizzato da una sporcizia, anche fisica, quasi palpabile, da ignoranza e da una cattiveria che è vista non tanto in tono accusatorio, ma quasi come caratteristica inevitabile per lo stato delle cose, e quindi attuata inconsapevolmente. Il tono è quello di un pessimismo divertito, ironico, ma anche senza speranza se non quella che arrivi una grottesca apocalisse.

Oggi, quindi, a partire dalla lettura quotidiana dei giornali, può sembrare che i due registi, girando Lo zio di Brooklyn, abbiano avuto una certa lungimiranza, e, anche se forse la loro assenza di speranza è eccessiva, perlomeno abbiano azzeccato quale strada stesse percorrendo l’Italia: la sensazione dopo la visione è quindi, ancor più che nel 1995, quella di un lungo brivido freddo lungo la schiena.
Questo è raccontato senza mai cadere nel gratuito e nel fastidioso: semmai, i difetti sono che alcuni momenti geniali ed efficaci si alternano con altri poco incisivi e ripetitivi, e soprattutto una cura fotografica (il direttore della fotografia è Luca Bigazzi) e dell’ambiente notevole per eleganza, ma che lascia il sospetto di un estetismo troppo ricercato e manierista.

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