La linea d’ombra
Adolescenza e cinema vanno spesso a braccetto perché si assomigliano. Quell’età di passaggio è un territorio denso e doloroso, dove l’intelligenza è matura abbastanza da comprendere la realtà, ma l’infanzia è appena dietro l’angolo e ancora allunga la sua ombra dorata di magia, fantasia, credulità.
Una linea d’ombra dove tutto può succedere e a tutto si può credere, dove le emozioni sono devastanti e travolgenti, dall’euforia alla disperazione, dalla meraviglia alla desolazione. Un’età fatta di assoluti e che appassiona Gus Van Sant, protagonista di molti suoi film, soprattutto di quelli più riusciti, e al centro anche di questo suo ultimo L’amore che resta*. Annabel e Enoch sono adolescenti, adolescenti strambi (e quale adolescente non lo è?), ossessionati dalla morte e affamati di vita, macabri e romantici, contraddizioni di opposti che si intrecciano lungo la linea d’ombra. Ma il passaggio, per Annabel, è un ponte verso il nulla di una fine vera e definitiva, una morte che Enoch sembra deciso a non lasciare andare, nei suoi dialoghi con un fantasma e nella sua insistente frequentazione di funerali di estranei. La storia di Annabel e Enoch è amara e commovente, immersa in quella luce di crepuscolo che contraddistingue la loro età e la loro situazione e che permea la fotografia desaturata e delicata del film. Sono adolescenti e quindi possono credere a tutto (e noi spettatori, se ben disposti, possiamo farlo con loro): che la vita sia meravigliosa, che gli uccelli cantino all’alba per la gioia di essere ancora vivi, che la morte sia la più grande delle avventure, che “morire è facile, è amare che è difficile”. C’è un momento di questa amicizia/amore in cui lo spettacolo vacilla: insieme progettano il funerale di lei, lo popolano di dolci e di colori, e Enoch improvvisamente dice – E poi ci mangeremo tutto quanto -. In quell’istante il “mondo reale” irrompe, distruttivo, spietato, definitivo. Non ci sarà nessun noi, dopo la morte, e la carta dei disegni di Annabel si accartoccia su se stessa, gli uccelli smettono di cantare, la realtà precipita e seppellisce il mondo. L’amore che resta ha di questi momenti, intensi e dirompenti, anche grazie alla bravura di Mia Wasikowska e di Henry Hopper, e Van Sant ha la delicatezza giusta per raccontare una storia tanto drammatica da rischiare di scivolare in una retorica melensa ed eccessiva. Purtroppo il film si aggrappa a una profusione di dettagli “dolci” e “adorabili”, a un’estetica “tenera” e vintage che fa perdere forza al racconto. E’ un’estetica adolescenziale, se vogliamo, e per questo in tema con i protagonisti e la loro storia. Ma fa un po’ a pugni con una vicenda talmente disperata che vorrebbe strappare il cuore, e di tanto in tanto frappone una distanza inadeguata tra spettatore e personaggi. E lascia il rimpianto al pensiero di come avrebbe potuto essere un film più asciutto, più essenziale, più silenzioso, come i precedenti Elephant e Paranoid Park. Poco male, sarà per la prossima.
* Il titolo originale, Restless, non c’entra nulla con quello italiano, nonostante l’assonanza. “Restless” significa infatti “irrequieto, inquieto”. Così come non c’entra nulla con l’originale l’infantile voce italiana affibbiata a Mia Wasikowska, o gli imbarazzanti scivoloni di doppiaggio (“malatini di cancro”?). Lungi dal cercare un’inutile polemica, retoricamente mi chiedo quale sia la necessità distributiva di inserire a tutti i costi la parola “amore” nel titolo di ogni film, anche quando questo parla di malattia, morte, crescita. Quale sia la considerazione che si ha dello spettatore italiano, per il quale si ritiene indispensabile edulcorare ogni adattamento. Da cosa sia motivata la pretesa di richiamare gli spettatori in sala a vedere un’opera differente dalle intenzioni dell’autore, snaturata, appiattita, banalizzata.