RaiMovie, lunedì 12 dicembre, ore 1.25
Cinema di giocatori
Se n’era accorto già Dostoevskij: il giocatore è una grande figura per esprimere il malessere e l’essenza dell’uomo contemporaneo, inteso come creatura ingannevole e autoingannevole, perseverante, simulacrale, ma, soprattutto, umanamente, creatura che scende impulsivamente alle soglie del degno e della dignità.
La soglia della dignità era il traguardo perduto per Il giocatore di Dostoevskij: coerente fino all’ultima giocata, fino all’ultima illusione, sceglieva il gioco come compagno e perdeva la compagnia del resto degli affetti; non lo faceva per decisione o per derisione sprezzante, ma per impulso, posseduto ormai completamente dall’istinto del giocatore che trionfava sull’istinto dell’uomo, come una giocata. E per questo personaggio non è nemmeno la giocata più importante, perché non si accorge di aver scelto, di aver oltrepassato irreversibilmente la soglia.
Questo nel 1866. Poco più di cent’anni dopo gli risponde Altman, proseguendo il modello del giocatore come metafora contemporanea, ma a modo suo, attraverso il suo cinema decostruttivo, e con due protagonisti, Charlie e Bill, interpretati magnificamente da Elliott Gould e George Segal. Charlie è irrimediabilmente un giocatore: non scommette solo su ogni partita ma su ogni dettaglio, non per guadagnare ma perché scommettere per lui è una norma, una sua etica, indotta dalla noia, dal sogno, dallo scherzo; memorabilmente, Charlie cambia ognuna di queste scommesse e ogni altra situazione in buffoneria, creandosi una dimensione pubblica e privata in cui giocare per vivere e vivere per giocare si concludono a vicenda. Bill ha più chance di uscire dal gioco: non è un giocatore ventiquattro ore su ventiquattro ma quasi, gioca per immolarsi, per trovare un riscatto emotivo e quindi esistenziale che puntualmente non si avvera. Due vite che vivono alla giornata, prima del miracolo finale a Reno: entrambi investono tutto per giocare tutto e vincere tutto. E finirà come nessuno spettatore potrà prevedere.
California Poker è molto diverso da Il giocatore, anche se Altman è uno dei registi più vicini a Dostoevskij che il cinema americano abbia avuto, almeno per la polifonia del suo cinema, per l’eccesso dei suoi personaggi antieroici e per l’inquietante assenza di risposte sul futuro. È vero che Il giocatore è un romanzo troppo autobiografico, troppo confessorio per vivere separatamente dal suo autore, eppure il finale del libro sembra specchiare il cinema di Altman, con l’autoillusione di un “domani” redentivo in cui il protagonista/Dostoevskij potrà sempre smettere di giocare, mentre in realtà sprofonda senza recupero nel presente. Il cinema di Altman è troppo disincantato per giungere a una conclusione simile, per arrivare a questo grado di confessione, perché il mediocre di oggi resta mediocre fino alla fine, senza nobiltà nemmeno nell’illusione. Eppure Altman vive in un presente completamente sfatto: gioca al massacro con la narrativa hollywoodiana, è ostile alla tragedia solenne, bandisce le regole della finzione e della messa in scena quanto le regole del vivere secondo valori identitari. In California Poker queste decisioni sfondano i confini della satira di M.A.S.H. e anche la rielaborazione esistenziale di un genere come accadeva ne Il lungo addio. Non c’è genere che confini California Poker, né coerenza se non la propria. Possibile che ogni dramma si trasformi in burla, che perfino il sesso venga sdoganato e passi dalla disperazione alla goffaggine? E, contemporaneamente, è possibile che il grottesco, un po’ come accadeva in Ferreri, possa concludersi così tragicamente? Almeno Ferreri credeva nella tragedia, mentre Altman ha irriso la morte, perché per lui la vera tragedia è filmare un antieroe tragico senza nemmeno una dignità finale, patetica o ridicola che sia. Il suo cinema è come il cinema avrebbe potuto essere, e illusoriamente gli anni ’70 hanno lasciato intendere: un cinema tra le necessità dell’improvvisazione e le elaborazioni naturali di una macchina da presa che cerca movimenti complessi, quotidiani, lunghi e armonici, ma soprattutto un cinema che opera una demitizzazione esistenziale e quindi non puramente disinteressata, postmoderna o goliardica. California Poker, in particolare, è l’apoteosi del carnevalesco, di un carnevale umano perenne in cui si ribalta ciò che è la norma, s’innalza il provvisorio a condizione perenne e le parole trama, concretezza, moralità perdono ogni significato. La buffonata che decostruisce con la mancanza di serietà ogni cosa e poi scopre la vera tragedia: sembra poco, ma se diventa un modo di fare cinema non si potrà mai sapere quale sarà l’opera definitiva che chiude il cerchio. A meno che il film dopo California Poker sia Nashville. In quel film Altman completerà ciò che singolarmente i suoi film precedenti avevano innescato, facendo il film corale più epocale degli anni ’70. California Poker è il preludio indispensabile a questo affresco collettivo: film che si ama, che si odia, che spiazza perché molti non gli credono. Eppure è cinema di libertà cristallina, che gioca con tutto ciò che trova e che prova, spietatamente analitico quasi come i capolavori di Cassavetes di quegli anni ma perfetto ancora oggi nel suo disinteresse a trovare una forma, nella sua scelta di combinare simultaneamente sofferenza e irriverenza, parlare per parlare e inquadrature che non rispondono. Altissimo cinema carnevalesco appunto, dove perdere non è vincere ma si scopre anche la crudele verità che vincere è perdere. Cinema che sembra realizzare la profezia di Schiller: l’uomo è libero quando gioca, e quando è libero gioca. Ma vale solo per il cinema, non per gli uomini.