Una (furba) scommessa vinta
Presentato all’ultima edizione del Festival di Cannes, The Artist del francese Michel Hazanavicius, oltre a portarsi a casa il premio per il migliore attore, grazie all’interpretazione del protagonista Jean Dujardin, è diventato immediatamente un caso critico, i cui echi risuonano nel dibattito e nelle divisioni nate nelle pagine dei quotidiani al momento della sua uscita nelle sale italiane.
C’è infatti chi grida al capolavoro partendo dal presupposto che si differenzia dal cinema imperante fatto di supereroi, di effetti speciali fracassoni e senza cuore e di abuso del tridimensionale, basando il suo osannante giudizio su un evidente preconcetto e su un malcelato pregiudizio, tanto da lasciare il sospetto che l’esaltazione del film fosse già stata decisa prima della visione.
C’è chi invece storce il naso accusando l’autore di furberia, manierismo, secchionaggine sterile da primo della classe e “paraculismo” autoriale e festivaliero, evidenziando i limiti di una produzione troppo programmata a tavolino e sostanzialmente senza troppa anima a sostenerla. Come spesso accade, la verità sta nel mezzo di questi due estremismi critici: se è vero che è meritevole l’idea di provare l’impatto oggi di un’operazione “vintage” come questa, e il risultato è positivo, The Artist non è il capolavoro assoluto acclamato da alcuni; allo stesso tempo, in effetti la puzza di furberia arriva al naso perlomeno dello spettatore più cinefilo, facendogli aggrottare le ciglia, ma senza che distrugga del tutto un’opera in molti punti di elevata qualità e una visione, onestamente, in più di un’occasione molto piacevole. È giusto per il critico, qualora la colga, fare notare la sensazione di eccesiva programmaticità che traspare, e i dubbi sulla sua effettiva utilità, ma è altrettanto doveroso darle il giusto peso, che in questo caso non è decisivo.
Passando più strettamente al film, Hazanivicius riesce ad unire un lavoro filologico e “storiografico” importante, che riguarda non solo il cinema muto, ma anche il cinema classico hollywoodiano, con, per esempio, rimandi visivi e narrativi ai film che sono entrati nella storia per avere raccontato il passaggio al sonoro (Cantando sotto la pioggia, Viale del tramonto in primis, ma anche Luci della ribalta), e una narrazione cionvolgente e abile nel giocare con gli stereotipi e i topoi legati all’infanzia della settima arte. Senza cadere nel gioco sterile delle citazioni, e accellerando sul pedale della comicità e del melodramma, The Artist riesce a divertire, e, in fin dei conti, a vincere la scommessa, nonostante quell’ombra di furberia che qua e là fa capolino seminando dubbi.