Gli infami e gli eroi
Clint Eastwood prova a dare voce all’esigenza di raccontare i retroscena che hanno reso gli Stati Uniti ciò che furono e ciò che sono; lo fa mettendo in scena la vita di John Edgar Hoover, direttore dell’FBI che ne piegò le regole e i limiti fino a renderlo un dipartimento potente, integerrimo e produttivo.
L’ossessione del J. Edgar di Eastwood e DiCaprio è dimostrare all’americano medio lassista la giustezza dei propri metodi e delle proprie posizioni, dichiarando una “guerra alle idee”, impermeabile ai cambiamenti dei diversi presenti che Edgar si trova a vivere in quarant’anni di carriera tra il gangsterismo e Nixon presidente. Sulla dicotomia tra “eroe” e “infame”, tra bene e male senza zone grigie e senza insicurezze, Edgar pretende di agire direttamente, imponendosi con la contrapposizione tra due immaginari. Eastwood lo dichiara esplicitamente collocando il cinema – rito collettivo, rito mondano – all’interno del film: da un lato amplificatore del sentire sociale, dall’altro costruttore di mitologie. E J. Edgar apparentemente riesce a mutare di segno l’immaginario americano, a sostituire l’eroico criminale con l’eroico “g-man”: James Cagney dà il volto ad entrambi, sottolineando la facile interscambiabilità di ruoli e miti che Edgar non vede, o non vuole vedere, perché non è in grado di leggere i segni della realtà. Eastwood è cristallino (fin troppo forse) nel dipingere un uomo che vive autoconvincendosi, terrorizzato dalla debolezza e dalla propria natura (di essere umano fragile, anche se nel film ciò corrisponde prima di tutto a quella di omosessuale) perché altri – la madre – gli hanno imposto una forma senza altra possibilità; con l’espediente dell’autobiografia ri-narra la propria realtà, la “cinematografizza” (non per niente quando accarezza l’idea di una moglie sceglie un’attrice) inventandosi protagonista dinamico anche di ciò che gli riusciva peggio, ovvero il momento del faccia a faccia e dell’azione. Edgar finge una completezza che Eastwood demolisce impietoso, non solo attraverso le parole dell’inascoltato Clyde, ma anche con una regia spesso crudele, quando indugia sulle isterie in albergo, sul fare dittatoriale, sull’arroccamento senile tra le proprie convinzioni o sul corpo decaduto nel finale. Tra difetti trascurabili – come l’imperfezione delle “maschere” – ed altri meno, come l’occasione mancata di un approfondimento sulla mania dell’intercettazione, J. Edgar è il racconto di un uomo non buono e non giusto, il cui lascito non è la fede nel bene per la nazione, ma l’asservimento all’informazione, al pregiudizio e alla minaccia per controllare e distruggere nemici potenziali. L’inasprirsi della spregiudicatezza politica suggerito alla fine dalla presenza di Nixon non può oscurare il ritratto di un personaggio colpevole, con cui l’empatia è difficile, se non impossibile. Ed è giusto così.
J. Edgar [Id., USA 2011] REGIA Clint Eastwood.
CAST Leonardo DiCaprio, Armie Hammer, Naomi Watts, Lea Thompson.
SCENEGGIATURA Dustin Lance Black. FOTOGRAFIA Tom Stern. MUSICHE Clint Eastwood.
Biografico/Drammatico, durata 137 minuti.