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Una porta chiusa tra di noi
In un periodo in cui si è talmente assuefatti da un cinema costruito su infinite proposte di fascinazione per gli occhi, fortunatamente esistono ancora gli estimatori del semplice, capace di nascondere un messaggio talmente profondo che non richiede altro che essere narrato.
Questo sembra gridare Nobuhiro Suwa nei lunghi silenzi dei suoi film, negli spazi limitati dell’azione che costruisce, nella sua arte che tanto omaggia la Francia e il suo cinema, tanto da portarlo nel 2006 a realizzare un capitolo nel film corale Paris je t’aime dedicato al quartiere di Place des Victoires. Esattamente un anno prima, nel 2005 confeziona Un couple parfait, vincitore del Premio Speciale della Giuria al 58° Festival Internazionale del Film di Locarno: ancora una volta Parigi che fa da sfondo alla storia di una coppia all’apparenza felice, in realtà svuotata di qualsiasi complicità, muta e distante, irrimediabilmente sgretolata. Lo spettatore entra come un estraneo in medias res, ignaro dei fatti ma capace di avvertire la tensione tra loro che emerge spontanea nonostante una sceneggiatura ridotta all’osso e degli attori che deambulano, non facili da pedinare proprio perchè non sempre seguiti dalla macchina da presa. Quest’ultima preferisce rimanere statica, raccontando l’azione in una manciata di stacchi, lasciandole il tempo che le serve per svolgersi all’intero del quadro, paragonando la lentezza della messa in scena con il percorso complesso intrapreso dai protagonisti impegnati a capire chi sono e cosa desiderano veramente dal loro futuro. Man mano che la distanza si allarga, anche fisicamente i corpi scompaiono dalla scena, diventando fantasmi fatti di sole voci, frammentate, sconnesse, che tentano di raggiungersi anche attraverso porte chiuse. La macchina da presa testimonia da lontano, per poi inaspettatamente farsi curiosa incollandosi agli occhi chiari della protagonista, un primissimo piano che descrive ancora senza bisogno di parole la sua enorme tristezza nascosta all’interno di un silenzioso museo.
La separazione rimane tema costante nella poetica dell’autore: qui sviscerato, trova poi le sue declinazioni nel dolore per una perdita (l’episodio di Paris je t’aime), o nella divisione fisica di due piccole amiche, lontane geograficamente vicine nel cuore (Yuki&Nina, 2009). Si è parlato di omaggio al cinema francese, ma come non pensare durante tutto il corso dell’opera a Viaggio in Italia di Rossellini: ancora una coppia, ancora la crisi tra loro, il punto di vista dedicato alla donna, in questo caso una Ingrid Bergman desiderosa solo di ferire il marito lasciandolo sanguinare, per poi rendersi conto di quanto stia ferendo se stessa nel tentativo.
Per la conclusione, Suwa decide di avvalersi del fascino di una stazione ferroviaria, un tempo fuligginosa, qui minimalista e asettica, un ultima scena muta che sembra fare l’occhiolino al treno dei fratelli Lumiere. Ancora una volta la semplicità è di scena, talmente densa di significato da lasciare lo spettatore palpitante, sciogliendosi in un gesto naturale che dona al finale la coerenza della visione del cineasta, dimostrando ancora la sua eleganza nel lasciare in punta di piedi la vita delle persone, senza la morbosa pretesa di aggiustare fino in fondo le cose tra loro.