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In questo numero

Incontro con Gianluca De Serio

domenica 25 Marzo, 2012 | di Carmen Spanò
Incontro con Gianluca De Serio
Festival
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filmforum, Udine-Gorizia 20-29 marzo 2012
Sfida allo sguardo
Tra i tasselli variegati di un Festival capace di coniugare arte e ricerca sulla via della conoscenza condivisa, il cinema italiano si riscopre coraggioso e affida a due giovani autori – i registi torinesi Massimiliano e Gianluca De Serio – il compito di testimoniare la vitalità esplorativa di uno sguardo diverso sulla realtà.

“Mi è successa una cosa strana. Ero in albergo, appena entrato in ascensore; stavo per schiacciare il pulsante del piano al quale dovevo dirigermi quando qualcosa ha bloccato la mia mano attirando su di sé la mia attenzione: uno schermo con delle immagini. Mi sono messo a pensare. Il cinema oggi è proprio questo: un “qualcosa” di esploso, diffuso, che ha permeato la materia quasi fino a saturarla”. Parla con entusiasmo contagioso, Gianluca De Serio. Calibra le parole in un flusso armonico di riflessioni che ne rivelano la sorprendente competenza in materia (a 33 anni non è un fatto così ovvio), e si ritaglia i giusti spazi per affermare la profondità di analisi che anche un punto di vista giovane sulle cose può avere. Ospite d’eccezione (questa volta senza il fratello Massimiliano, impegnato sul fronte europeo) del primo seminario dedicato al cinema italiano contemporaneo – per i successivi due previsti il Filmforum ospita Yuri Ancarani e il gruppo dei Zapruder – De Serio colpisce fin da subito per la capacità di incanalare sui binari della chiarezza espositiva concetti e tematiche di penetrante complessità: “il cinema è uno spazio virtuale di dialogo tra chi lo fa e chi lo vede. Fondamentale, all’interno di questo dialogo, è la partecipazione attiva di entrambi i soggetti”. Vive di questo scambio comunicativo l’universo asciutto e silenzioso di Sette opere di misericordia, film-manifesto nel quale il dialogo tra i personaggi si diluisce fino a perdersi nella gestualità, nell’interazione fisica dei corpi, nel confronto di sguardi. L’abbandono quasi totale della parola dissemina la rappresentazione di passaggi oscuri, “buchi narrativi assolutamente necessari per spingere lo spettatore a prendere parte attiva al processo creativo di messa in scena e alla sua interpretazione”. Non è interessato a parlarsi addosso, Gianluca De Serio. Ricerca e pretende per il suo cinema un pubblico che non si accontenti di subire la visione, bensì che sia disposto a completarla, arricchirla, metterla in discussione: “è importante chiedersi sempre alla fine di un film: che cosa ho visto? La realtà che mi è stata mostrata esiste realmente o no? Sarei stato capace di vederla anche se il film non me l’avesse mostrata?”. Ed è sul fronte delle domande che è in grado di instillare che si recupera la dimensione più vera del cinema, che si fa “tensione spirituale verso un invisibile sconosciuto al quale solo attraverso l’arte l’uomo è in grado di avvicinarsi”. Sentimenti come la misericordia e la compassione – da intendersi qui nell’accezione cristiana di pietà – sono gli “invisibili” delle relazioni umane di oggi, e su questa mancanza il cinema dei De Serio porta continuamente a interrogarsi. “Noi raccontiamo storie di fantasmi, di uomini e donne sradicati dalla loro identità”, di individui altri ai quali resta solo l’umanità accennata del gesto compassionevole (Alberto e Luminita in Sette opere di misericordia), o la voce per rivendicare il diritto a essere persone e non merce di strada (Bakroman) o per cantare un dolore ai limiti della sostenibilità (Stanze). E nel farlo “ci affidiamo al coraggio delle loro intuizioni recitative, e alla loro stupefacente capacità di portare l’essenza di sé davanti alla macchina da presa. E’ stato così per i ragazzini africani di Bakroman e per le cantilene struggenti dei rifugiati politici somali in Stanze, che abbiamo volutamente deciso di inabissare nell’oscurità soffocante di un’ex caserma militare fascista per accentuarne la condizione di alienante isolamento e, allo stesso tempo, di disperazione comune”. Pensata come installazione artistica per un mostra, Stanze esemplifica l’attenzione al dettaglio della rappresentazione che caratterizza il cinema deseriano nella sua totalità; cinema fatto di “sperimentazione visuale, di lavoro sullo spazio, sull’inquadratura, sui corpi, sul linguaggio”. Cinema impegnativo ma “non propriamente impegnato. Per noi fare cinema è più una missione che ci spinge a concentrarci sulla realizzazione di un progetto solo se vi ritroviamo della compassione nei confronti degli esseri umani”. Perché com-patire è soffrire con l’altro, è aprirsi al diverso, è ampliare lo sguardo, è scrutare oltre, per restituire al cinema la sua “magica capacità di avvicinarci a tutte le realtà del mondo, inverandole nella loro genuina autenticità”.

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