Gli assaggi sono finiti
Prendi un gruppo di liceali in piena tempesta ormonale, lascia che si diplomino, che crescano, vadano al college, si sfoghino e mettano su famiglia. L’insorgere delle responsabilità nel passaggio alla fase adulta li avrà resi maturi?
Mark Zuckerberg per rimorchiare inventò Facebook, mentre loro perdevano tempo con i calzini, le torte e i manuali.
Ma Jim e i suoi amichetti con dipendenza da dolci hanno ormai messo la testa a posto, ammesso che l’abbiano mai usata seriamente su un campo che travalichi i confini dell’immaginazione. Si sa infatti, che la mancata concretizzazione delle fantasie è spesso all’origine di ogni fissazione, motivo per cui è più facile provare tenerezza anziché compassione verso chi, per autoconvincersi ed infondersi coraggio, ricorre a pseudonimi come Gnocbuster, Stifmeister o Sherminator. Escludendo il “breve” video di Nadia (che ancora circola in rete), e la conquista di una MILF (rielaborazione dell’indimenticata Mrs. Robinson), non si registrano particolari imprese eroiche che li riguardino. Perché allora riunirli a distanza di nove anni?
Perché le feste di American Pie fanno apparire innocente persino il toga party di Animal House, aggiungendo però quella dose di romanticismo e buoni sentimenti che mancavano al branco di Porky’s. E soprattutto, perché finché l’educazione sessuale non sarà introdotta in ogni programma scolastico, tutti i padri dovrebbero seguire l’esempio del Sig. Levenstein e impartire lezioni ai figli sull’argomento. Quest’ultimo episodio – che tenta di rimediare ai quattro ignobili capitoli precedenti, legati unicamente dal titolo/trucchetto acchiappa teenagers – assorbe come da pronostico l’amaro sapore delle rimpatriate. Il raduno con i vecchi compagni di scuola è un momento tragico che i social networks hanno reso impossibile da evitare, presentando già in bacheca il conto con le somme e i bilanci da tracciare. E com’era prevedibile, i grandi propositi dichiarati dalla classe ’99 di East Great Falls non sono stati rispettati. Jim e Kevin si sono accontentati e le loro frustrazioni sono proseguite all’interno del sacro vincolo del matrimonio; Finch e Stifler, incapaci da sempre ad instaurare relazioni affettive, subiscono vessazioni non più come avrebbero gradito dall’Ufficiale Krystal, ma dal capo sul posto di lavoro. Oz è l’unico che ha svoltato, divenendo un anchorman di successo circondato da modelle, ma l’evoluzione del suo personaggio torna utile per ricordare – nella maniera classica della tradizione americana – che nemmeno una vita dai contorni perfetti regala il passepartout per la felicità. Ed è proprio l’insistenza su tale punto a spingere l’ipocrisia oltre ogni limite, sacrificando lo spirito goliardico dei primi film in favore del ritrovato senno dei trent’anni (su quale pianeta?), dichiarato con una serie di rifiuti umanamente intollerabili: dalla vergine che si concede ripetutamente su un vassoio d’argento, all’ex che si infila nel letto, finendo con la supertopmodel rispedita a casa perché (ahilei!) non ha la genuinità del primo amore.
Difficile capire se la condotta virtuosa dipenda più da scelte contemplate per un senso di rispetto e lealtà, o piuttosto sia frutto dell’ansia da prestazione di eterni bambini impauriti, che decidono di rifugiarsi in situazioni rassicuranti, preferendo godere in modo infallibile al pensiero del “come sarebbe stato”. Anche se non è possibile trarre risposte dalla mente maschile con un processo alle intenzioni, di sicuro i ragazzi di American Pie offrono una magra consolazione rispetto all’altra faccia della medaglia, proposta al cinema con Gli Infedeli, in una settimana non encomiabile per la categoria.