Venerdì 22 giugno, Classics, ore 00.55
Nessun uomo è un’isola
“Nessun uomo è un’isola, intero in se stesso”, così la pensava il poeta inglese John Donne. La sua idea era che ogni uomo, singolarmente, fosse soltanto un pezzo del più vasto continente, e che l’umanità nella sua interezza costituisse la grande terra, la nostra magione amica.
Ed è proprio dal pensiero di abitare tutti una stessa casa, unitamente ad un profondo senso di sofferenza scaturito dalla perdita delle tante vite umane nella tragedia della persecuzione razziale hitleriana, che deriva la necessità per Charlie Chaplin di combattere la ferocia della Storia con le possibilità dell’Arte. Anch’egli, come Donne, pensa che la perdita di una sola zolla del continente diminuisca la terra tutta, e che, allo stesso modo, la morte di un solo uomo mutili l’intera umanità. E’ un prezzo altissimo quello che l’Europa sta pagando con la seconda Guerra Mondiale, e Chaplin lo grida con forza nel discorso finale – accorato appello di più di sei lunghi minuti all’umanità – del suo Il grande dittatore. Tutta una serie di vicissitudini, insieme ad una estrema somiglianza fisionomica, fanno sì che all’ultimo momento il barbiere ebreo rimpiazzi il dittatore Hynkel sul palco, e che quello che avrebbe dovuto essere il discorso di annessione dell’Ostria – precisa riproduzione dell’Anschluss austriaco – diventi in realtà qualcosa di diverso. Oltre a ciò, un precedente passaggio aveva permesso al personaggio di Charlot di sostituire il barbiere: a ben guardare infatti, il protagonista de Il grande dittatore altri non è che uno Charlot invecchiato, capelli grigi e il volto solcato dalla maturità, eccezionalmente dotato di una posizione sociale ben precisa, un lavoro ed una casa. Sovrapposizioni che ora gli concedono di parlare, sguardo in macchina, per la prima e ultima volta, al suo pubblico. Presto però al personaggio subentra l’artista, rompendo lo spazio della finzione di un lavoro che ha filtrato con esclusiva precisione la storia dentro la propria struttura. Sebbene sempre acuto osservatore delle dinamiche a lui contemporanee, altrove Chaplin aveva riprodotto la realtà in modo più schematico. Con Il grande dittatore invece i riferimenti sono inequivocabili e quanto mai circostanziati. Si pensi ad esempio alla sequenza indimenticabile delle baruffe durante il pranzo tra Hynkel e Napaloni (Jack Oakie): con estrema aderenza, Chaplin restituisce la delicata situazione politica europea, ed in particolare il forte clima di tensione esistente tra Germania e Italia riguardo alla questione austriaca. Ma non solo. Ad essere mostrato è anche l’acuirsi del meccanismo di persecuzione nei confronti degli ebrei attraverso l’episodio del facoltoso israelita che in un primo momento offre il suo denaro per sostenere i progetti hitleriani, ma che poi ritratta, dando così impulso ad una feroce ritorsione nazista. E ancora le ostilità fra capi militari nazionalsocialisti, con l’episodio di Schultz (Reginald Gardiner) e l’esplicito riferimento alla notte dei lunghi coltelli. Tanto che da questo punto di vista, il lavoro di Chaplin ha tutta l’esattezza di un film storico nel vero senso della parola. Scritto nel 1938 e uscito nelle sale nell’ottobre del 1940 – in Italia solo nel ’45 a guerra terminata – Il grande dittatore fu tuttavia accolto con freddezza e incomprensione, e ad essere frainteso fu soprattutto il conclusivo appello all’umanità. Discorso che tuttavia rimane il culmine di questo lavoro e che ne trattiene ancora oggi tutta la forza, rendendolo gesto artistico e politico straordinario, oltre che tappa imprescindibile della storia del cinema. Con esso Chaplin audacemente attacca Hitler, volgendo in parodia la crudeltà della sua dittatura, e portandone alla luce la grottesca assurdità, nell’ingenua speranza –tipica dell’arte – che il mondo possa essere diverso da ciò che è.