Quando inizia l’intervallo
Salvatore (Alessio Gallo), timido diciassettenne napoletano, tutte le mattine accompagna il padre a vendere granite col carrettino. Veronica (Francesca Riso), sua smaliziata coetanea, ha sgarrato col capoclan di un rione.
Si ritrovano dentro un edificio diroccato (l’ex ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi), lui carceriere involontario, lei prigioniera fuori parte. Nasce un rapporto, un’empatia che evade il tempo e lo spazio delle guerre fra clan. Un intervallo dalle logiche del mondo criminale.
Presentato nella sezione “Orizzonti” della 69° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, il primo lungometraggio del documentarista Leonardo Di Costanzo si è subito imposto all’attenzione della critica e del pubblico del Lido, portandosi a casa, meritatamente, 4 premi minori assegnati dalle associazioni di categoria e dai cineclub. In ultimo, ma non meno importante, la chiamata del Toronto Film Festival che lo ha inserito nella sezione “Discovery”.
Parlare di mafia nel nostro paese è un po’ come attaccarsi addosso un bersaglio, si rischia sempre di scontentare tutti, sia quelli che di quel paese si ritengono i padroni, sia chi da quei padroni vuole essere liberato e attende all’infinito che l’arte salvi almeno la sua anima. Non stupisce, quindi, che il film di Di Costanzo sia piaciuto così tanto, pur essendo sbarcato al Lido in sordina, senza proclami e con la stessa umiltà che ne ha caratterizzato la lavorazione (basti pensare che i due giovani protagonisti sono stati scelti dopo un laboratorio teatrale per la recitazione improvvisata). Non stupisce non solo dato che fra gli sceneggiatori compare Maurizio Braucci, autore della sceneggiatura di Gomorra, ma perché, per un cortocircuito fenomenale, si cerca di combattere la logica della camorra con lo strumento dell’indifferenza, mettendola ai margini della narrazione filmica e riducendola a leggenda urbana nei dialoghi dei due giovani. La consapevolezza che qualcosa, fuori da quel tempio abbandonato, si stia muovendo è innegabile ma ancora più magnetica è la fascinazione della sospensione, del viaggio dentro l’immensità di un luogo che sembra abbracciare tutta Napoli. I due percorrono sentieri impervi e stanze anguste per ritrovare quello che Stefano Benni definirebbe il loro “orobilogio”, fermandosi solo quando il mondo di fuori bussa con arroganza alla loro porta. La verità è che si rimane spiazzati di fronte alla lucida ingenuità di questi due ragazzi che per un giorno si astraggono dalla realtà delle cosche per vivere un gioco, chiusi fra le mura valicabilissime di una prigione che per loro diventa caverna segreta da scoprire. La verità è che accanto ad un cinema che indaghi a fondo il presente abbiamo bisogno di queste storie, per far sì che l’arte non si confonda con la cronaca, confondendo tutti.