Un carneade di nome Brillante
Brillante, chi é costui? La domanda, valida nel 2005 (anno dell’esordio Masahista), rimane di stretta attualità anche oggi, a otto anni e dieci film di distanza. Autore considerato tale soprattutto in virtù di un’idea di cinema rigorosa e di uno stile connaturato alla ripetitività, Brillante Mendoza fa impazzire i festival di mezzo mondo, che si contendono i suoi lavori come rare primizie.
Da Cannes (Serbis, 2008; Kinatay – Massacro, 2009, vincitore del Premio alla Regia) a Berlino (Captive, 2012), passando per Venezia (Lola, 2009; Thy Womb, 2012) il dibattito sull’Arte del regista filippino prosegue fra bagni di gloria e bocciature sonore. Chi ama Mendoza lo fa elogiando caratteristiche che sono le stesse per cui i detrattori lo detestano. Su tutti, il tremendo iperrealismo della sua messinscena. Che si parli di giovani massaggiatori omosessuali, di rapimenti o di levatrici sterili, l’ambiguità non trova soluzione. Obiettivo primario di Brillante è una “verità” cinematografica strettamente connessa al concetto di “sincerità”, imperativo che si riaffaccia ad ogni intervista: “Credo nella possibilità di uno sguardo puro e incontaminato verso il reale. […] Quando ho iniziato sapevo solo che avrei voluto realizzare opere più sincere possibili”. Una dichiarazione d’intenti persino ingenua, e che pur tuttavia fa il paio con un corpus di produzioni tutt’altro che naif. La modernità dei lavori di Mendoza sta proprio anzi nel potente cortocircuito tra fiction e documentario: il confine fra ciò che é reale e ciò che é frutto di uno script s’è fatto ormai indiscernibile, scolorando in un flusso di immagini liquide e allucinate. Chi guarda un film di Mendoza viene posto dinnanzi ad una esplicita scelta: accettare o rifiutare il gioco che gli viene imposto. La questione si fa persino etica, perché il punto di vista cui siamo costretti è a tal punto antropologico da non risparmiarci nulla. Di fronte a scene di parto, sgozzamenti di animali, stupri collettivi e medicazioni di ferite purulente la cinepresa dilata l’immagine “sconveniente” all’infinito; il nostro cine-occhio si insinua morboso sulle superfici dei corpi, schermato da una fascinazione e da una sensibilità non comune per il frammento che entra nel campo visivo. Vista così, la ricerca serrata di documentazione “senza filtri” assomiglia paurosamente alla pornografia e ad un voyeurismo sordido che pur di perseguire i propri obiettivi non fa sconti a nessuno. Tutto, al fine di affrontare le problematiche più scomode, deve essere filmato. Ed è solo ingurgitando senza indugi tale sgradevolezza che saremo premiati, comprendendo finalmente l’eccezionale dicotomia poesia/violenza di un’indagine filmica che senza sosta si interroga – altro cuore pulsante della poetica mendoziana – sul relativismo della normalità.