Prologo apologetico: ognuno ha i suoi motivi.
Quali colpevoli passioni o dogmatiche verità muovano il tuo passo verso un luogo climaticamente ostile e umanamente stipato, un labirinto di immagini attraenti o scostanti che ti logorerà inevitabilmente la suola delle scarpe lasciandoti con le estremità ibernate e il cuore (o il cervello, c’è chi va di cervello e un po’ ne invidiamo l’ineccepibile punto di vista) scongelato, è fatto privato e impassibile di giudizio.
Confessione: mi sono bruciata un paio di guanti (prima una mano, quindi l’altra: neppure la soddisfazione di un fuoco simultaneo e semiriscaldante) aspettando Frances Ha. L’ho aspettata con l’ansia di chi siede sullo sgabello pericolante di un sito turistico e poi tende la mano – umida e tremante – al ritrattista di strada che ti consegnerà il suo sguardo sui nei che ti porti in faccia da tutta la vita.
Infastidita dalle fughe onirico/elettriche di Shia LaBeouf nell’on the road al neon sulla morte necessaria di Charlie Countryman (sempre bravissimo, ma del tutto innecessario, marionetta irrigidita in una maratona pleonastica su orme scavate da altri), provata dalla duplice macchina (da presa e automobile) che contiene le fughe da fermi (logorroiche, petulanti e testamentarie, polemiche e tragicomicamente immedesimabili) di Jesse e Céline in Before Midnight (perché dopo l’alba e il tramonto c’è la litigiosa consuetudine della sera che scende bucherellando il sipario senza strapparlo mai), ho cercato autoindulgente conforto nella fuga centripeta eppure spericolata di Greta Gerwig.
Premessa innecessaria: chi scrive ama Greta Gerwig, la considera un corpo estraneo in pregevole equilibrio tra la malinconica comprensione della differenza e l’entusiastica insubordinazione alla vita. Insomma, una sorta di alieno/specchio, abbastanza inopportuno da disturbare e talmente schietto da incidere solchi squilibrati nella più granitica incarnazione umana del buon senso.
Diretta da Noah Baumbach in un film che corre sulle corde dignitosamente critiche dell’autobiografia, circumnaviga la sua inadeguatezza e balla al ritmo di un sogno testardo ma diluito in agrodolce far nulla. Calpesta i pavimenti con i piedi nudi di chi (non) ha imparato a camminare sul vetro, si stringe nelle braccia abbracciando il senso dell’insuccesso eppure persevera. “Mi piacciono cose che sembrano errori”, dice, e proprio l’errore (e il suo sempiterno errare per città di cui vedi di sfuggita i marciapiedi) è il grande successo di Frances Ha. Un road movie senz’altra mappa che la geografia della naturalezza, e al contempo un’opera scrittissima che non concede il lusso dell’improvvisazione – perché è pur sempre la carrellata di un’esistenza reale. Che procede a ritmo di musica truffautiana (con concessioni puntuali ed energizzanti a David Bowie), stiracchiandosi le gambe a testa in giù come una bambina che insiste a fare la candela in un mondo che ti giudica dall’alto in basso. Incontrollabile e incontenibile, portatrice sana talvolta scottata di un inconcludente fervore gestuale e dialogico, Frances Ha ci riconcilia con le cesure inevitabili del nostro romanzo di formazione (tagliare il cognome troppo lungo: adattare la nostra misura allo standard di una cassetta delle lettere), ci rappacifica con l’ingenua, discontinua, incoerente insubordinazione delle nostre passioni.