Racconti delle cinque stagioni
“Mi muovo con le stagioni” spiega lo Straniero, appena giunto nel villaggio. E se le stagioni non si muovono? Se invece di susseguirsi in quattro si fondono in una sola, distante e impassibile, ibernata nel mutismo di un gallo che non canta, o in quello della neve che piove ad agosto?
La quinta stagione arriva e non concede pretesti, o spiegazioni. In un piccolo paese delle Ardenne, che da subito appare come un microcosmo autosufficiente di eredità feudale, la Fine si palesa inizialmente nella negazione simbolica di un falò beneaugurante che non brucia. Da quel momento, la catastrofe è in crescendo: la primavera invisibile, le api scomparse, le vacche sterili, la terra arida. Niente gemme o germogli, solo la fugace (e crudele) consolazione di fiori di plastica. All’opposto dei cataclismi hollywoodiani cui il cinema ci ha abituato, La cinquième saison non ci propina terremoti né inondazioni, ma un’apocalisse silenziosa e immobile, in forma di assenza. La natura se ne va, sbarra porte e portoni, (non) dice addio. Abbandona l’uomo alla sua inettitudine, scoperchiando il vaso di Pandora della sua impotenza. Il rovesciamento del rapporto di potere svela un’umanità ignobile e meschina, sgretola (neanche troppo lentamente) ogni parvenza di struttura sociale, smantella le regole civili sprofondando la collettività in un ancestrale abisso di sopraffazione. Che sia una vendetta o una conseguenza non è dato sapere, e neppure importa, se non per il sospetto pregno d’inquietudini che il Male fosse già lì, acquattato sotto le consuetudini, ad aspettare di trovare il cancello divelto. Jessica Woodworth e Peter Brosens ci raccontano il disfacimento del mondo appoggiandosi alla scuola da cui provengono, quella che mescola documentario e videoarte. La quinta stagione è una carrellata immaginifica di quadri semoventi e bellissimi, ben lontana, però, dal superfluo esercizio di stile: ogni inquadratura o movimento di macchina, nella sua lancinante ed esasperata perfezione estetica, dice di un universo che si cristallizza in fotografie morte. Che si irrigidisce nella documentazione di un passato da consegnare a posteri post umani. I riferimenti all’arte figurativa (moltissima pittura fiamminga, dalla nitidezza d’interni vermeeriana ai paesaggi di Bruegel – e come non pensare alla citazione di questo artista nell’altrettanto apocalittico Melancholia dello scorso anno? – ma anche metafisica, simbolismo, surrealismo) sono solo le attinenze più evidenti di una sinfonia di immagini gonfie di allegorie, dove ogni inquadratura è profondamente metaforica. Dove l’obiettivo si spalanca sullo spettatore, illuminando insieme a lui la Fine delle cose.
La quinta stagione [La cinquième saison, Francia/Belgio/Olanda 2012] REGIA Peter Brosens, Jessica Woodworth.
CAST Aurélia Poirier, Django Schrevens, Sam Louwyck, Gill Vancompernolle.
SCENEGGIATURA P. Brosens, J. Woodworth. FOTOGRAFIA Hans Bruch Jr.. MUSICHE Michel Schöpping.
Drammatico, durata 93 minuti.