SPECIALE RAPE & REVENGE
L’inesorabilità di un rito
Visto a oltre cinquant’anni dalla sua realizzazione, La fontana della vergine nulla sembra aver perduto della propria forza originaria, ribadendo la modernità delle scelte di Bergman nell’affrontare la storia di violenza e vendetta che il nucleo primigenio del film – l’antica ballata La figlia di Töre – portava con sé.
Alla pari de Il settimo sigillo, girato tre anni prima, anche La fontana della vergine si colloca storicamente nel controverso Medioevo svedese (siamo intorno al 1200), tratteggiato senza concessioni come un’epoca di inesauribili contraddizioni, in cui all’estrema brutalità faceva da contraltare la sete di magia e contatto col divino ugualmente spartita tra cristiani e pagani. In questa cornice di spiccate commistioni culturali si inscrivono le psicologie pulsionali ma problematiche dei personaggi del racconto, tutto incentrato sull’attesa di una violenza già ampiamente presagita e sulle conseguenze che questo atroce atto porta con sé: la dinamica lineare degli eventi che, passando attraverso lo stupro della giovane vergine Karin, conduce alla vendetta di suo padre Töre contro i pastori colpevoli, fino all’atto di espiazione catartica che sotto al corpo di Karin vede scaturire una sorgente miracolosa, assume in questo modo i connotati di un vero e proprio rituale collettivo, di iniziazione crudele al mondo, destinato a segnare l’esperienza di tutti, carnefici compresi. L’inesorabilità della vicenda spinge Bergman ad attuare un capovolgimento ideale delle priorità di messinscena, privilegiando alla descrizione articolata degli snodi narrativi il ritratto, spesso in primo piano, dei personaggi e delle loro emozioni: sulla costruzione della sequenza prevale così l’istante dell’inquadratura, che grazie all’essenziale contributo di Sven Nykvist, qui alla sua prima collaborazione con Bergman, palesa la grazia del proprio debito al cinema muto. Il film si conferma in ultima analisi uno straordinario catalogo di immagini rituali: il maleficio lanciato da Ingeri in apertura, il rospo racchiuso tra le focacce, lo stupro stesso, lo sradicamento dell’albero di betulla, il taglio dei suoi rami e il bagno che precedono la furia di Töre, la fedele adesione ai ritmi del giorno e della notte, il coltello della vendetta piantato sul tavolo, fino al miracolo conclusivo che solo in parte compensa il dolore del lutto. Sotto questa angolazione alla morte di Karin viene affiancata quella del giovane pastorello che accompagna gli stupratori della ragazza, assistendo impotente alla loro efferata crudeltà. Ecco perché La fontana della vergine ci racconta di un martirio ben più lato e problematico, che prescinde dall’idea di giustizia umana o divina: il martirio degli innocenti.
La fontana della vergine [Jungfrukällan, Svezia 1960] REGIA Ingmar Bergman.
CAST Max von Sydow, Brigitta Valberg, Gunnel Lindblom, Brigitta Pettersson.
SCENEGGIATURA Ulla Isaksson. FOTOGRAFIA Sven Nykvist. MUSICHE Erik Nordgren.
Drammatico, durata 89 minuti.