Human Rights Nights, dal 9 al 18 maggio 2014, Bologna
Un cinema metafora globale e illuminante
Assieme a film come Enzo Avitabile Music Life e Salma, portavoce di messaggi da sempre cari al festival Human Rights Nights, sono stati forse alcuni dei cortometraggi che hanno arricchito questa XIV edizione e il documentario Black Out di Eva Weber (proiettati nella serata di sabato) a racchiudere il vero spirito del Festival in tutta la sua variegata natura.
Seguendo un perfetto esempio di cinema globale e multiculturale, questi lavori coprono distanze che spesso sembrano incolmabili, accostando realtà diverse e lontane tra loro e caricandosi dunque di un valore altamente simbolico, motivo inoltre di una forma ed una libertà più propriamente artistica da un punto di vista strettamente cinematografico. Cahaya di Jean Lee guarda così con sguardo infantile agli slum di Jakarta, dove i desideri semplici dei bambini si concretizzano in una bicicletta che addobbata con carta e stracci si fa emblema di una povertà che lascia ancora emergere un’umanità fanciullesca e sincera. Un’accesa accusa alla violenza sulle donne è invece il corto della regista sudafricana Nadine Cloete, Miseducation, descrivendo la situazione femminile a Cape Town attraverso la voce narrante dell’undicenne Kelina, che in maniera semplice e diretta racconta della propria paura a percorrere la strada verso scuola, ogni giorno teatro di troppe violenze e di un’infanzia spesso negata. Una ciudad en una ciudad di Cylixe ricalca sin dal titolo la funzione allegorica di un grattacielo abbandonato in Venezuela, divenuta casa per centinaia di persone che impossessatesi degli spazi hanno fatto del più grande edificio occupato del mondo una città all’interno della città di Caracas, una vera e propria società parallela ed invisibile. Le animazioni in stop-motion di Rabbitland descrivono la surreale esistenza di conigli rosa che provvisti di buchi al posto del cervello rappresentano lo stadio più alto dell’evoluzione e in un immaginario paese democraticamente organizzato passano le giornate a votare in libere elezioni. Facendosi carico di una forte ed efficace denuncia nei confronti di ogni tipo di regime, l’opera dei registi serbi Nikola Majdak Jr. e Ana Nedeljkovic si apre ad una riflessione ampia in cui però si può intuire il peso della storia di una terra dal passato travagliato. E il tema dell’identità culturale è il fulcro poi del meritevole Butter Lamp del cinese Hu Wei (vincitore del premio degli spettatori come Miglior Corto di Human Rights Nights 2014) che, a metà strada tra fiction e documentario, porta avanti un’originale indagine socio-antropologica sull’ingerenza della Cina moderna e dell’Occidente nella cultura tibetana, attraverso un susseguirsi di set fotografici in cui famiglie di nomadi vengono ritratte su sfondi contrastanti con la loro condizione. Ma è probabilmente il mediometraggio Black Out a lanciare il messaggio di speranza più rappresentativo ed emblematico. Nella capitale della Guinea, uno dei paesi più poveri dell’Africa, durante le sessioni d’esami centinaia di ragazzi percorrono chilometri di notte per raggiungere luoghi provvisti d’elettricità, come l’aeroporto o le stazioni di benzina dove l’illuminazione dei lampioni gli permette di leggere e studiare. Un vero inno al desiderio di conoscenza, un grido silenzioso per il diritto alla cultura, l’irrefrenabile ricerca di una luce, metafora come non mai di una via che possa illuminare il futuro di un’intera popolazione.