C’erano un volta programmi televisivi ad alto costo e a basso rischio. Come scordare gli show del nuovo millennio in cui a dibattersi nella fossa dei leoni erano ex-famosi caduti nel dimenticatoio, burini, sfigati, etero e omo, vergini, mistress, palestrati, pseudo-intellettuali?
Come si sono evoluti questi format quindici anni dopo? Evitando volontariamente tutte quelle edizioni strascico del bel tempo che fu (L’isola dei famosi, Amici di Maria de Filippi), da annoverare quest’anno è in particolare un adattamento televisivo lanciato un po’ in sordina di mamma Rai e casa Endemol, Boss in incognito. L’idea originale nasce dalla mente creativa dell’inglese Stephen Lambert, che concepisce Undercover Boss dopo essersi chiesto: cosa succederebbe se il capo di un’azienda si travestisse e lavorasse come nuova leva tra i propri dipendenti? Lo scopo del programma è quello di esaminare l’operato concreto della propria azienda e, una volta rivelato il trucco ai lavoratori, sottolinearne i punti deboli e valorizzarne i pregi, premiando infine i più meritevoli con promozioni, premi e quant’altro. A condurre le fila del docu-reality c’è Costantino Della Gherardesca (già one-man navigato con Pechino Express), incaricato di preparare e seguire psicologicamente il protagonista di ogni puntata.
Oltre che ad una regia accurata che concede una giusta e mai pedante dose di pathos e ad una conduzione efficacemente misurata, ad attirare l’attenzione è il contesto sociale nel quale si inseriscono, con la scusa di un documentario sul lavoro, le telecamere del programma. Se la formula del reality è sempre stata etichettata come il circo dell’etere, qui ad entrare in scena sono i grandi nomi dell’industria italiana: Sandro Ferrone di Ferrone S.p.a., Franca Semplici di Magnani Sposa, Alessandro Onorato di Moby Lines, Paolo Penati di QVC. Dunque la domanda che sorge spontanea è: quand’è che questo genere esclusivamente popolare si è innalzato alla portata di tutti? Negli anni pre-crisi era semplicemente impensabile immaginare un CEO mettersi a nudo, calarsi letteralmente nei panni di un subalterno, aprendo la porta ad emozioni e ricordi. Queste figure un tempo celate in un iperuranio di miticità e mistero, sono ora in vendita nelle grinfie del popolo italiano. È evidente che alla base di tutto ciò vi sia la necessità, crisi colpevole, di una concreta auto-valutazione che parta dal basso. È altrettanto interessante costatare che l’elemento privilegiato per farlo, oltre naturalmente ad uno scontato ma ormai obsoleto motivo pubblicitario, sia un mezzo nato per la casta ma diventato pian piano sempre più popolareggiante come quello televisivo.