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34° Premio Sergio Amidei: intervista a Álex de la Iglesia

giovedì 16 Luglio, 2015 | di Michele Galardini
34° Premio Sergio Amidei: intervista a Álex de la Iglesia
Festival
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Nella tranquilla e calda Gorizia, a due passi dalla statua di Carlo Raimondo Michelstaedter, un giorno potrebbe capitarvi di incontrare un signore spagnolo con la barbetta demoniaca, la giacca nera elegante su cui ha appuntato una spilla a forma di maschera da wrestling e una passione enorme per il cinema. Questo signore, che in realtà dimostra la metà dei suoi anni, si chiama Álex de la Iglesia, noto ai cultori per Ballata dell’odio e dell’amore e al grande pubblico per il documentario sul campione del Barcellona Lionel Messi, uscito quest’anno nelle sale italiane. Lo incontriamo poche ore prima che riceva il Premio alla Cultura Cinematografica all’interno del 34° Premio Sergio Amidei.

Già nei tuoi primi film colpiva la capacità di costruire scene d’azione molto complesse ma, al tempo stesso, molto chiare, come la sparatoria fra la locandiera e il curato a metà di El dia de la bestia (1995). In che modo le prepari?
Quella scena di El dia de la bestia è stata perfettamente pianificata perché era una scena molto complessa. L’attrice (Terele Pàvez, ndr) era già un po’ avanti con gli anni e in quella scena doveva gettare a terra il protagonista e poi trascinarlo per il corridoio ma non era possibile. Quindi abbiamo utilizzato un “travelling” con delle rotelle per mediacritica_intervista_alex_de_la_iglesia_290spostarla. Mi piace che nel cinema si rappresenti la violenza in modo reale nonostante qualche scena sia molto forte. Mi piace che la scena d’azione sia chiara, mi piace che faccia male! Di solito nei film la lotta tra i personaggi sembra una coreografia ma quello che voglio per i miei film è che ci siano dei personaggi definiti, forti che combattono e che si fanno del male.

Hai dei registi di riferimento per girare questo tipo di scene?
Don Siegel e Robert Aldrich soprattutto per L’imperatore del nord (1973) che racconta la storia di alcuni senzatetto che, durante la Grande Depressione, viaggiano attaccati sotto ad un treno, vicino alle ruote. In una scena il nemico è sopra il treno e butta delle lattine che, rimbombando sulle ruote, fanno cadere quelli che sono sotto. È uno dei miei film preferiti in assoluto.

Ti rivolgi sempre, nei tuoi film, al mondo dei media e, in particolare, alla televisione. Che rapporto hai con questo mezzo?
Per me è il male ma per un certo verso è una specie di dio perché, quando ero piccolo, tutto quello che si sapeva veniva solo dalla televisione: era lo specchio di ciò che accadeva nel mondo e questo cambiava il modo di essere e di pensare delle persone. La televisione è un elemento comune e maledetto di tutti i miei film e il prossimo, la commedia Mi gran noche, sarà ambientato proprio dentro una stazione televisiva.

Sempre in una sequenza di El dia de la bestia troviamo una foto gigante di Silvio Berlusconi appesa in un corridoio dell’emittente che, secondo il protagonista, dovrebbe essere la roccaforte del male.
Questa presenza ritorna anche in La chispa de la vida (2011) e Mi gran noche. L’Italia, soprattutto, negli anni ’50 e ’60 produceva i migliori film al mondo negli studi di Cinecittà con registi come Fellini, Dino Risi, Marco Ferreri: questi erano i film che più mi piacevano ma poi la televisione ha distrutto tutto. In Italia arrivarono le reti private di Berlusconi e in Spagna è successa più o meno la stessa cosa.

Oltre a te ci sono molti registi spagnoli contemporanei che realizzano film horror, come Jaume Balaguerò e Paco Plaza: pensi si possa parlare di un movimento cinematografico?
A partire da El dia de la bestia e da altri film di altri registi che sono usciti nello stesso periodo, abbiamo aperto le porte ad un filone dell’horror spagnolo, dando vita ad una nuova generazione di cineasti. Oggi i film di genere non hanno radici ed è triste perché son sempre più pensati per il mercato internazionale. A differenza di quanto accade in questo tipo di cinema io sfrutto storie che abbiano una radice concreta in qualcosa che è mio e questo è davvero divertente e appagante. Il cinema più internazionale è anche il più locale perché piace a tutti ma così facendo perde la sua identità: è come se tu stessi facendo il Pan Bimbo e invece a me piace la baguette!mediacritica_intervista_alex_de_la_iglesia_290_1

Assieme alla televisione, presenze costanti nei tuoi film sono i pagliacci: sono figure che ti affascinano o che ti fanno paura?
La dicotomia fra fascinazione e paura ha una tradizione antichissima. Eugenio Trias, docente di estetica a Barcellona, ha scritto un libro su La donna che visse due volte che si chiama Lo bello y lo siniestro ispirato a Il perturbante di Freud: secondo lui tutto quello che ci risulta bello ha due volti, uno di fascinazione e uno di paura. Quello che ci piace ci repelle: quando ti innamori, per esempio, ti piace e, al tempo stesso, ti fa paura. Sono due componenti che devono essere equilibrate perché senza paura il bello non sarebbe attraente e, d’altro canto, l’eccessiva paura non permette di conoscere a pieno il bello. Mi sento un pagliaccio perché è una maschera di felicità stupida, ridicola che non fa riferimento a nulla. Ormai la figura del pagliaccio è anacronistica: non piace più a nessuno, nemmeno ai bambini.

Sai già quali film girerai da qui a qualche anno?
È molto difficile fare cinema soprattutto per chi, come me, è anche produttore e quindi è necessario pianificare molto prima diversi progetti. Con Jorge Guerricaechevarría (sceneggiatore di quasi tutti i suoi film) ho sempre 5-6 storie in teste alle quali lavoriamo contemporaneamente infatti, mentre stavamo preparando Mi gran noche, abbiamo sviluppato altre tre storie tra cui El bar. Si tratta di un thriller “horroroso” che uscirà a novembre anche se l’idea era nata dieci anni prima: non sapevamo come finirlo ma poi, all’improvviso, abbiamo letto una notizia e abbiamo capito come sarebbe stato il finale.

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