SPECIALE NUOVO CINEMA SPAGNOLO
Il Male epidemico
Homo sum, humani nihil a me alienum puto: messe in bocca a Juan Oliver o a Malamadre, eroe e sua nemesi in Cella 211, le parole con cui Cremete rispose a Menedemo sembrano dare forma al violento ecosistema carcerario in cui chiunque, agente o killer seriale, è pronto a qualsiasi esperienza umana senza riserva alcuna, tra colpa, dannazione e improbabili alleanze.
Nessun essere umano può fare a meno di partecipare alla natura collettiva dei suoi simili, nel bene e nel male. Il regista Daniel Monzón ci conduce nel cuore di tenebra di un carcere maleodorante di ferro e sangue, dove buono e cattivo sono sterili etichette affibbiate da una società in cui il manicheismo è irrimediabilmente spazzato via. Da secondini, criminali psicopatici e terroristi dell’ETA che stanno dentro il reticolo di sbarre, da guardie violente e agenti governativi che pilotano, dall’esterno, strategie belligeranti senza tenere conto di amici e nemici. Il male non conosce compartimenti stagni, ma un’incessante osmosi, e parla attraverso la furia di una rivolta carceraria che diventa allegoria della società intera collassata nelle sue gerarchie e nei suoi rapporti di forza. Cella 211, spazio asfittico e memento mori ineluttabile, dietro il mascheramento di ottimo cinema di genere, si muta in fedele riproduzione del nostro ecosistema politico costruito su una legislazione disattesa, su un’etica compromissoria e sul potente ruolo affidato ai media. Così saltano e si rovesciano ruoli e identità e assistiamo impotenti, grazie al ritmo serrato impresso alla narrazione, ad un ipercinetico carnevale dietro le sbarre. L’eroe si trasforma in antieroe plagiato dal lato oscuro e, forse, i reietti pluriomicidi sono gli unici a possedere un inattaccabile senso di solidarietà disinteressata. Lasciata la bella moglie a casa, Juan Oliver (la rivelazione Alberto Ammann) assume l’incarico come agente di sorveglianza in un carcere. Non potrebbe immaginare che, pochi minuti dopo, a seguito di un piccolo incidente occorsogli, si ritrova segregato in una cella (la 211), in preda alla più feroce masnada di efferati criminali in rivolta al comando di Malamadre (Luis Tosar). L’unica cosa che può fare è fingersi un detenuto e partecipare suo malgrado alla ribellione per salvarsi la pelle. Il film di Monzón mette a fuoco, in un ruvido e crudo affresco, complesse riflessioni sugli abusi di potere e la violenza istituzionalizzata, facendo letteralmente ribollire – il parossismo della violenza non risparmia dettagli e situazioni-limite – il calderone messo sul fuoco da uno specialista del cinema di genere spagnolo. Muscolare ed erudito come il coevo Il profeta, Cella 211 spreme, al di là della retorica, action e tragedia fino a far impregnare col sangue “misto” di galeotti e agenti, anche chi non è parte integrante del circolo vizioso criminale. Il male è epidemico e contagia chiunque.
Cella 211 [Celda 211, Francia/Spagna 2009] REGIA Daniel Monzón.
CAST Luis Tosar, Alberto Ammann, Antonio Resines, Marta Etura, Carlos Bardem.
SCENEGGIATURA Jorge Guerricaechevarría, Daniel Monzón (tratta dall’omonimo romanzo di Francisco Pérez Gandul). FOTOGRAFIA Carles Gusi. MUSICHE Roque Baños.
Azione, durata 110 minuti.