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“Italia: Ultimo Atto”: intervista a Fabrizio Fogliato

mercoledì 10 Febbraio, 2016 | di Gabriele Baldaccini
“Italia: Ultimo Atto”: intervista a Fabrizio Fogliato
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Fabrizio Fogliato ha collaborato con Nocturno Cinema e Zabriskiepoint.com e attualmente fa parte della redazione di Rapporto Confidenziale, rivista digitale di cultura cinematografica. È inoltre curatore di rassegne e festival sul territorio lombardo. Ha scritto diversi saggi, tra i quali l’interessantissimo e bellissimo primo volume di Italia: Ultimo Atto. L’altro cinema italiano, che, per quanto ci riguarda, è uno dei testi più importanti pubblicati lo scorso anno in Italia.

Lo è soprattutto per la sua trasversalità e la sua capacità di mettere in ordine il caos che permea una storia del cinema italiano che in pochi conoscono e che in molti giudicano (a torto) non degna di interesse. Abbiamo perciò intervistato Fabrizio cercando di capire un poco più a fondo le ragioni e le scelte che stanno dietro al suo libro.
Fabrizio, nel tuo libro il “cittadino-medio” viene identificato come guida in un percorso all’interno del cinema italiano. L’intento è appunto quello di far emergere la parte più importante di una storia mai raccontata. Da dove nasce questa idea e perché?
Tutte le storie del cinema sono sempre raccontate partendo dai film, dai loro contenuti e delle innovazioni tecniche e/o linguistiche che li caratterizzano, per poi definire l’immaginario collettivo. Io ho provato a fare il processo inverso: individuare di che cosa e di che immagini si è nutrito lo spettatore cinematografico per vedere se e come questo ha inciso, non solo sul suo immaginario collettivo, ma sul suo modo di vivere e relazionarsi all’interno della società. Che cosa hanno visto gli occhi dei frequentatori delle prime, delle seconde e delle terze visioni (nonché dei proseguimenti delle prime visioni e/o i resistenti delle sale di quartiere) nel corso degli anni? Come hanno scelto cosa che vedere? Quale è stato il rapporto di scelta o casualità con cui hanno frequentato le sale? Partendo da qui, entrando nella ricerca (quella che è alla base dei due volumi del libro, dura, per me, da oltre dieci anni) ti rendi conto che c’è una storia del cinema italiano fatta di film sommersi – magari non di prima qualità e non memorabili per gli aspetti di cui sopra – ma che vale la pena indagare in quanto sono il tessuto filmico che ha accompagnato la vita degli italiani nel corso del tempo e che li ha emozionati, sconvolti, fatti ridere, piangere e persino irritare ed eccitare. Ecco perché mi sono completamente disinteressato dell’aspetto qualitativo dei film e ho focalizzato la mia attenzione sul contenuto narrativo e/o tematico e sulla visibilità delle pellicole.
In questo senso, allora, provo a girarti la domanda che Davide Pulici pone nella prefazione del libro: pensi che “noi rendiamo il cinema ciò che è? O è il cinema a renderci quello che siamo?”
In Italia il cinema non ha mai influito più di tanto sul modo di essere degli italiani – e non lo ha fatto neanche sul loro modo di ragionare o di leggere il momento storico in cui hanno vissuto. Non è mai stato né monito né strumento di indignazione (mi vengono in mente alcuni titoli come Todo modo di Petri, Fuoco! di Gian Vittorio Baldi, Le mani sulla città di Rosi, Italia: ultimo atto? di Pirri –  che avrebbero dovuto avere un effetto, una reazione nel pubblico… e invece niente). Per l’Italiano-medio (termine che utilizzo a malincuore ma solo per non generalizzare perché non sarebbe corretto) il cinema è cinema: non è né strumento culturale, né mezzo di riflessione. È luce in movimento sullo schermo e basta. Crea un mondo altro che esiste in quel momento della visione condivisa ma non diventa mai argomento di discussione, veicolo per indignarsi e ribellarsi, pretesto per organizzare un cambiamento. Ecco perché nel mio libro racconto di una lunga serie di registi che con le loro opere imperfette, irrisolte, più pulsionali che ragionate, hanno saputo catturare la temperie del cambiamento e/o hanno percepito l’atmosfera del declino o della degenerazione sociale, rimanendo comunque totalmente inascoltati, predicatori nel deserto dell’indifferenza antropologica degli italiani verso tutto ciò che è nuovo o che li possa spingere ad attivarsi per provare a sovvertire lo status quo.
Quindi vale il discorso per il quale “noi rendiamo il cinema ciò che è”? Mi pare di ricordare infatti che utilizzi molti fatti di cronaca per rafforzare la tua tesi. Credi dunque che il cinema italiano abbia avuto spesso un modo di raccontare i fatti tipico della forma cronachistica?
Esattamente. Il ricorso a fatti di cronaca (ma non solo) all’interno del libro è necessario come specchio per riflettere gli umori dei cineasti che dalla cronaca traggono ispirazione per definire luoghi e ambienti di “fiction” facilmente riconoscibili dallo spettatore, il quale ritrova sullo schermo – sotto forma deformata, iperrealista e manipolata – quella stessa rappresentazione degli eventi che ha già letto sulle pagine dei giornali, sentito sulle frequenze della radio o visto sullo schermo della televisione. Tutti gli aspetti più morbosi, neri e inquietanti che attraversano il cinema italiano come un basso continuo – anche nelle opere meno sospettabili – riproducono un mood narrativo-artistico necessario per colpire lo sguardo dello spettatore e per delineare l’immaginario collettivo: quello in cui il confine tra cronaca e drammatizzazione della stessa è praticamente inesistente. Ecco perché la cronaca (prevalentemente quella nera e nerissima) è spesso servita a registi e sceneggiatori per leggere il momento storico e ha permesso loro di catturare quell’atmosfera  – presente ma impercettibile – in cui si percepisce il cambiamento in anticipo sui tempi. Lo sceneggiatore italiano, per me, è ontologicamente neorealista, nel senso che va a caccia – taccuino alla mano – di ciò che c’è fuori e annota, spia, osserva e poi… su carta traduce per immagini. Non si spiega altrimenti il forte ancoraggio alla realtà, alla cronaca e alle dinamiche sociali di tutto il cinema di genere degli anni Sessanta e Settanta.
E della contemporaneità cosa pensi? Credi che attualmente il cinema italiano si stia allontanando da questo modo di raccontare le sue storie? Pensi che il realismo – un concetto che tanto ha influito sul suo percorso evolutivo – sia stato dimenticato?
Direi che nessuno ha più né la voglia né le capacità di raccontare questo Paese: tolto Suburra (con i suoi pregi e i suoi difetti) che rimane? 1992, Romanzo criminale e Gomorra sono serie tv. I nostri registi di punta pensano ad altro, si rifugiano nell’intimismo (Moretti), nelle loro ossessioni (Sorrentino), nel fantastico (Garrone). I grandi maestri del passato non hanno creato degli allievi, non hanno né voluto né saputo farlo, sia per presunzione che per gelosia della propria arte. Il realismo non appartiene più al nostro cinema da molto tempo – paradossalmente i Vanzina con il loro cinema caricaturale “usa e getta” sono stati gli ultimi a utilizzarlo come chiave di lettura della Storia e come strumento narrativo eccessivo, ridicolo e ridondante – perché, in fondo, si può dire che da un lato la realtà è talmente intellegibile oggi, da risultare impossibile da riprodurre su uno schermo e, dall’altro, è stato il piccolo schermo ad appropriarsi (con tutti i limiti del caso) della drammatizzazione della Nostra Storia.
Il percorso da te intrapreso in questo volume si conclude con una disamina del cinema di Massimo Pirri: pensi ci siano (o ci siano stati) personaggi altrettanto “sotterranei” che allo stesso modo hanno saputo descrivere l’evolversi dei processi storici e sociali con la stessa imperfezione formale, ma soprattutto con la stessa lungimiranza e continuità?
Certamente sì. Tre nomi su tutti nel passato: Brunello Rondi, Eriprando Visconti e Alberto Cavallone; oggi Michele Placido regista. I tre autori del passato sono artefici di un cinema irregolare, a volte troppo ambizioso per mezzi produttivi e narrativi a disposizione, eccessivo e ridondante ma, comunque e sempre, estremamente sincero e onesto con il pubblico. Oggi questo testimone l’ha raccolto Placido, il quale si ostina a fare un cinema spesso indigeribile e grottesco quasi per partito preso, ma come i tre del passato anche lui non imbroglia, non cerca la strada più semplice. Per certi aspetti – nell’essere regista istintivo ad autonomia di genialità limitata – Placido è quello più simile a Pirri. Inoltre credo che il cinema Italiano abbia spesso avuto registi che anche solo per un film hanno dimostrato enorme potenziale mai confermato nelle opere successive. Se prendiamo il caso di Pirri dobbiamo dire che la sua più grande sfortuna è stata quella di fare l’autore nel periodo di maggior crisi del cinema italiano – quello del trapasso dell’industria cinematografica a quella televisiva. Inevitabile, quindi, che nessuno abbia creduto in suoi progetti e nelle sue sceneggiature perché troppo personali e feroci per poter essere accettate da una cultura e da pseudo-produttori già indirizzati verso la censura preventiva del passaggio televisivo del film. Infine va detto che Rondi, Visconti, Cavallone, Pirri e Placido sono accomunati dall’essere dei battitori liberi nel mondo del cinema, indipendenti fino al “suicidio d’autore” – come dimostrano le ultime opere delle loro filmografie. Comunque la si pensi non si può non considerare un fatto: anche solo per una sequenza, per un’intuizione tecnica, per uno slancio di follia artistica ogni film di questi autori non può lasciare indifferenti, cosa che – rispetto all’aridità culturale e artistica del cinema italiano contemporaneo – forse, meriterebbe di essere presa in considerazione nonché di essere rimarcata.
Domanda di rito per concludere: il secondo volume è già pronto? Ti va di anticiparci qualcosa?
Innanzitutto sarà diversa la struttura, organizzata per macrotematiche e incentrata sul cambiamento definitivo che investe la società italiana dalla fine dei Sessanta in cui il cittadino diventa spettatore. Attraverserà la crisi del cinema e dell’industria produttiva individuando cause e conseguenze e come queste investono il modo di fruire dei film. Alcuni argomenti, in ordine sparso, che si troveranno nel volume 2: la laicizzazione dello stato, Aldo Semerari e il cinema, il porno italiano (tra cinema e televisione), Renato Polselli, l’ultimo Fellini… E tanto altro, ancora in divenire.

Italia: Ultimo Atto. L’altro cinema italiano [Italia 2015] AUTORE Fabrizio Fogliato.
PREFAZIONE Davide Pulici. EDITORE Associazione culturale Il Foglio.
Saggio, 463 pagine.

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