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E ora parliamo di… Paul Verhoeven

sabato 25 Marzo, 2017 | di Filippo Zoratti
E ora parliamo di… Paul Verhoeven
Review
2

SPECIALE PAUL VERHOEVEN
L’uomo senza ombra
Come stabilire coordinate univoche quando si parla dell’anticonformista Paul Verhoeven? Nato ad Amsterdam nel 1938, Verhoeven è arrivato al grande pubblico – americano, e quindi mondiale – attraverso opere controverse, contraddittorie e asimmetriche. In cima alla lista, ovviamente, RoboCop (1987) e Atto di forza (1990).

Prima di questi due film, la fantascienza aveva altre connotazioni: Verhoeven comprende la necessità di gettare il cuore oltre il compromesso e la morale, riempiendo le due pellicole (la seconda delle quali, è bene ricordarlo, tratta da Philip K. Dick; tralasciando il capo d’opera Blade Runner, siamo di fronte alla miglior trasposizione dell’universo cyberpunk e avantpop dello scrittore statunitense) di satira e feroce cinismo.mediacritica_paul_verhoeven_290 Ma non è questo che scandalizza i benpensanti di allora: a finire nell’occhio del ciclone è la sua predilezione per i toni accesi e per il ritratto realistico e disturbante della violenza. Verhoeven disegna una violenza selvaggia e grottesca, chiave socio-politica delle relazioni umane. Uno scandalo, ma solo per il suo nuovo pubblico: tutti i suoi lavori “olandesi” – dall’esordio Gli strani amori di quelle signore (1971) a Il quarto uomo (1983), che gli apre le porte di Hollywood – contengono già il gusto barocco e la fisicità per i quali verrà etichettato e frainteso nella dorata fabbrica dei sogni. A proposito di fraintendimenti, è lui stesso a ricordare in un’intervista del 2012 come alla fine degli anni Settanta fu in lizza per dirigere L’impero colpisce ancora; Spielberg gli chiese di portare all’incontro coi produttori il suo nuovo film Spetters: «C’erano scene forti, di sesso spinto, ma ne andavo fiero. Lo vollero vedere, così glielo mostrai e non venni mai più contattato». Il sangue, l’amore audace e la carnalità: questo è per l’America Paul Verhoeven. Un trittico ben riassunto nella disinibita patina di Basic Instinct (1992) e Showgirls (1995). Film sfacciati, ai limiti della pornografia, poco consoni ad un establishment che in quegli anni premia Gli spietati di Eastwood, il Codice d’onore di Reiner, i Cuori impavidi di Gibson e il Forrest Gump di Zemeckis. Verhoeven incassa bene, ma sbanca ai Razzie Award e finisce nel calderone dei reazionari a causa di Starship Troopers (1997), apologo antimiltarista scambiato per guerrafondaio. E poi? E poi c’è l’abbandono, l’apparente sconfitta di un autore che gli States hanno pervicacemente reso invisibile e “senza ombra” (come il suo ultimo film yankee, anno 2000). Verhoeven, a 62 anni, appende la cinepresa al chiodo… E invece no: prima Black Book (2006) in Olanda e poi Elle (2016) in Francia portano fra lo stupore generale alla ribalta il quasi 80enne Paul. Con Elle in particolar modo si consuma la rivincita più lampante: quasi derisa al momento della presentazione in concorso a Cannes 2016, l’opera con protagonista Isabelle Huppert sembra sabotare proprio le convenzioni e gli stereotipi degli Studios, imbastendo provocatoriamente una trama imprevedibile e impossibile da etichettare. Qui inizia la terza carriera di Verhoeven, cineasta – ora sì! – che risorge con un prodotto finalmente (e nuovamente) aderente alla sua poetica. Lontano dai (pre)giudizi e dalle convenzioni, lontano dalle logiche accecanti di Hollywood.

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  1. Pingback: Fiore di carne (1973) - Mediacritica – Un progetto di critica cinematografica

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